C’è un Papa a Roma?

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L’indagine di Massimo Viglione sulla crisi della Chiesa

di Giovanni Tateo Milano

A partire dall’11 Febbraio 2013 la Chiesa Cattolica sembra entrata in una crisi estremamente drammatica. Completamente diversa da ogni altra affrontata nel passato.

Quel giorno Papa Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, improvvisamente comunicò la sua volontà di rinunciare alla sua missione di Santo Pontefice. E se già questo fu un trauma notevole per i Cattolici, ulteriore sconcerto provenne dalla sua scelta di diventare il primo Papa emerito della storia della Chiesa, una novità assoluta tra le sue istituzioni, che ancora si fatica a comprendere e giustificare. Terzo trauma fu conseguentemente, per moltissimi credenti, il tempestoso Papato di Francesco, Jorge Mario Bergorglio. Un Pontificato talmente problematico da essere ormai da più parti accusato apertamente di eresia palese e ostinata. Un punto questo che per lo storico Massimo Viglione, autore del libro in esame, è un dato assolutamente certo, tanto da costituirne la principale motivazione, e una delle fondamentali ed argomentate premesse per la sua articolata indagine sull’intera situazione.

Egli infatti si propone di cercare di rispondere nella maniera migliore al tremendo quesito posto dal titolo, giacché ovviamente un Papa eretico non potrebbe e non dovrebbe essere affatto Papa. Ma tale risposta, data l’estrema complessità sia della questione in sé che del momento storico che la Chiesa sta disgraziatamente attraversando, può darsi tutt’altro che facilmente. Si dubita infatti che Benedetto XVI abbia validamente rinunciato al Papato. E di conseguenza si dubita pure che Bergoglio sia stato validamente eletto nuovo Papa. E in questo contesto ci si interroga pure su cosa effettivamente abbia significato la comparsa del Papa emerito. Quindi chi era davvero il Papa? Era uno solo oppure i due contemporaneamente? E qual è la vera Chiesa: quella dell’uno, dell’altro, di entrambi, o di nessuno dei due?

Per questo, volendo semplificare, lo studio si suddivide in tre grandi sezioni: una dedicata al tema della possibilità che un Papa sia effettivamente eretico e di come potervi far fronte, un’altra alla rinuncia di Ratzinger, e infine una per le personali conclusioni dello studioso. È del tutto evidente, già in questo impianto della disamina, che si configuri un nesso ben preciso tra la vicenda di Ratzinger e quella di Bergoglio, e di certo non solo per una mera questione cronologica o inerente la successione papale. Necessariamente, quindi, l’intera ricognizione si muove agilmente tra storia della Chiesa, teologia e diritto canonico.

In primo luogo, dunque, si accerta non solo che l’ipotesi del Papa eretico sia stata effettivamente e lungamente esaminata dalla teologia cattolica, ma che vi siano stati reali casi storici in cui essa si è effettivamente concretizzata. Ciò perché si è voluta dare una risposta netta e circostanziata a quegli ampi settori del mondo cattolico che, evidentemente a torto, ritengono sostanzialmente impossibile che una sciagurata eventualità del genere possa mai realmente verificarsi.

Dopodiché la parte più corposa del testo analizza il caso della rinuncia papale di Benedetto XVI e delle sue conseguenze. Anche qui come, nella sezione precedente, lo sguardo è panoramico, e la visione abbraccia praticamente l’intero dibattito che finora si è avuto riguardo a questa spinosa problematica. Dunque si esaminano attentamente e criticamente le posizioni dei suoi diversi protagonisti, evidenziando gli elementi più utili e interessanti ai fini di un’elaborazione davvero profonda del tema. E come giustamente sottolinea Viglione, che in qualche modo dialoga a distanza con tutti loro, a oltre dieci anni dal primo evento cruciale, la discussione è tutt’altro che esaurita, o anche solo prossima ad una definitiva chiarificazione. Anzi, da una qualche unanimità di pareri, almeno sui punti più importanti, pare si sia anni luce lontani. Infatti una delle principali conclusioni dell’autore è l’indiscutibile evidenza della cosiddetta “guerra di tutti contro tutti”, ossia l’esteso dissenso che differenzia e distanzia l’opinione dei diversi studiosi che si sono cimentati col problema. Anche se a questo punto forse non sarebbe affatto sbagliato parlare di autentico enigma. E su questo l’autore esprime un’altra conclusione di cui si ritiene certo, e sulla quale noi stessi concordiamo in pieno: tutta l’enorme, indescrivibile confusione scaturita dalla serie di eventi in oggetto non sembra affatto il risultato di circostanze casuali ed imprevedibili. E nemmeno semplicemente l’effetto diretto ed inevitabile di quei fatti, ma il prodotto strategicamente calcolato della precisa volontà che li ha determinati. Un vero e proprio meccanismo infernale teso a precipitare la Chiesa di Cristo in un caos religioso allo stato puro, che infatti pare purtroppo non aver ancora cessato di provocare sconquassi.

Ma non anticiperemo al lettore a chi, secondo l’autore, appartenga questa volontà di totale disordine e sovversione. Il libro infatti si legge in un certo qual modo come un thriller ad alta tensione, come un appassionante romanzo giallo di cui si desidera ardentemente conoscere il colpevole, la cui identità appunto non riveleremo adesso. Né esprimeremo ora la nostra personale opinione sull’intera faccenda, cosa che richiederebbe un nostro studio a parte.

Quindi chi sarà stato il vero responsabile della crisi epocale di cui la Chiesa appare vittima nell’ultima decade e passa? Sarà stato il rivoluzionario Bergoglio, oppure qualcun altro o tutti tra i papi conciliari e quelli post-conciliari? Oppure il colpevole è stato proprio il Concilio Vaticano II? O forse è il “modernismo”, l’eresia e l’apostasia stessa, che secondo molti avanzerebbero sempre più potentemente nella Chiesa? Quale che sia la risposta giusta a tutti questi inquietanti interrogativi, è certo che il libro di Massimo Viglione è non solo un ottimo studio, una lettura utilissima innanzitutto per orientarsi in maniera adeguata sulle questioni ed interpretazioni che infervorano l’attuale dibattito ecclesiale, ma un preziosissimo, anzi fondamentale, strumento critico. Sì, perché non solo le brillanti risposte avanzate dall’autore, ma anche le acute domande che egli pone sono indubbiamente una notevole fonte di riflessione e di stimolo per ulteriori indagini ed approfondimenti. A questo proposito, in conclusione, non possiamo che elogiare la sua notevole e non comune onestà intellettuale, poiché è tanto sincero nell’esprimere senza mezzi termini le proprie intime, e ben argomentate, convinzioni quanto umile nel riconoscere quella che lui considera l’estrema difficoltà di avere certezze assolute, ossia di poter formulare delle conclusioni definitive, totalmente oggettive ed inoppugnabili.

Ma se appunto è così difficile far luce su una vicenda così oscura e preoccupante, allora tanto più è necessario continuare a studiarla, analizzarla a fondo in maniera accurata e obbiettiva, e trasmettere alla comunità dei fedeli, con coraggio e determinazione, tutte le certezze faticosamente acquisite. E in particolare a tutti quei Cattolici che, a causa di questo tremendo stato di cose, rischiano assai seriamente di restare disorientati, seguire falsi profeti, e infine di perdere la fede e uscire dalla Santa Chiesa di Cristo, mettendo in gravissimo pericolo le proprie anime.

Massimo Viglione, Habemus Papam? Papa eretico, rinuncia, sede vacante. L’insegnamento del passato e il dibattito dopo l’11 febbraio 2013, Maniero del Mirto, Roma, 2024, pp. 272, € 25.

Copyright © 2024 Giovanni Tateo Milano, tutti i diritti riservati all’autore.

La Turchia, l’Apocalisse e il Quarto Segreto di Fatima

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di Giovanni Tateo Milano

 

 

In un articolo precedente1, abbiamo delineato un possibile processo storico il cui esito finale sarebbe l’instaurazione del regno mondiale dell’Anticristo profetizzato nell’Apocalisse. Come fondamento di questo prossimo Stato anticristico abbiamo immaginato un nuovo impero ottomano in fieri, ritenendo questa ipotesi come la necessaria implicazione della tesi, sostenuta dal teologo Walther Binni, secondo cui l’apocalittica “Babilonia la grande”, la sua futura capitale, non dovrebbe essere altra che Istanbul. Dunque sarebbe la Turchia ad avere il ruolo principale nell’edificazione del futuro impero mondiale di Satana. E l’allarme dell’Apocalisse rispetto all’enorme pericolo da essa costituito potrebbe essere confermato dal messaggio profetico trasmesso dalla Madonna a Fatima, in Portogallo, il 13 Luglio del 1917, il cui significato più profondo è finora rimasto avvolto nel mistero. Eccone una parte estremamente significativa:

«Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Finalmente, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace».

Qui si paventava l’avvento della Rivoluzione russa, quindi si potrebbe subito obbiettare che la Madonna chiese la consacrazione della Russia, e non della Turchia, al Suo cuore immacolato affinché la prima non contaminasse il mondo col comunismo, e non provocasse una guerra mondiale ancora più devastante delle prime due. Vero, però bisogna comprendere che tale consacrazione per la Russia costituisce una benedizione ed una protezione da tutti i suoi nemici, interni ed esterni, infatti la rivoluzione bolscevica fu un colpo di stato attuato da forze ostili di entrambi i tipi. Il comunismo fu imposto ai Russi da una setta fanatica con la violenza ed il terrore. Dunque anche oggi dovremmo chiederci chi siano i nemici sia fuori che dentro la Russia, e certamente la Turchia è stata storicamente uno dei suoi più grandi e resta un suo importante antagonista. Inoltre la Repubblica Cecena, a maggioranza islamica, è stata finora la maggiore minaccia all’integrità della Federazione Russa, e potrebbe senz’altro tornare ad esserlo. Oltre a ciò, secondo i più grandi esperti delle vicende della Chiesa, il famoso “Terzo Segreto di Fatima” il 26 Giugno 2000 non sarebbe stato pubblicato per intero2, come dimostrerebbe il fatto che la seguente parte cruciale non solo resti enigmatica, ma del tutto incompatibile con la sua interpretazione ufficiale:

«E vedemmo in una luce immensa che è Dio: “qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti” un Vescovo vestito di Bianco “abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”. Vari altri Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c’era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i Vescovi Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della Croce c’erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio».

L’allora cardinale Joseph Ratzinger, nell’interpretazione ufficiale, sostenne che l’intera visione non fosse altro che la metafora della persecuzione del Cristianesimo nella Storia, soprattutto nel XX secolo, quindi qualcosa di riferito al passato. E in particolare al 13 Maggio del 1981, proprio nell’anniversario della prima apparizione della Madonna a Fatima, quando Papa Giovanni Paolo II venne quasi ucciso in un attentato in Piazza San Pietro. Dopo essere sopravvissuto, il pontefice si identificò col suo alter ego, il “Vescovo vestito di Bianco”, quindi la versione ufficiale del Vaticano è che la profezia avesse preannunciato proprio questo agguato. Ma è assolutamente evidente non solo lo scenario totalmente diverso, ma una vera e propria strage di religiosi, Pontefice compreso, ad opera di un vero e proprio esercito. Infatti, nel 2010, divenuto Papa Benedetto XVI, lo stesso Ratzinger avvertì: “Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa”. Quindi si può restare assolutamente certi che quegli avvenimenti profetizzati non si siano mai concretizzati finora. L’immagine che ci è stata trasmessa è infatti troppo precisa e potente perché la si interpreti senza considerarne il drammatico dettaglio. E solo se riferita ad un futuro che potrebbe purtroppo compiersi, essa troverebbe piena conferma proprio nell’Apocalisse ed altri passi evangelici che ci parlano della spaventosa persecuzione dei cristiani nei Tempi Ultimi. La rivelazione sembrerebbe addirittura annunciare l’annientamento del Cristianesimo, se non fosse che per fortuna aggiunge: “In Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede”, ossia che in qualche modo Esso sopravviverà fino alla Fine dei Tempi.

Ma, tra le tantissime prove che dimostrerebbero l’incompletezza della versione ufficiale del Segreto, ce ne sarebbe una che spicca particolarmente: un testo pubblicato il 15 Ottobre 1963 dalla rivista “Nuova Europa” di Stoccarda3 e mai smentito dalla Santa Sede, anzi ripreso persino dall’Osservatore Romano il 15 Ottobre 1975. In origine era un documento diplomatico vaticano, di cui l’autore, il cardinal Alfredo Ottaviani, prosegretario del S. Uffizio, promosse sempre la diffusione. Fu trasmesso ai governi di Usa, Urss e Inghilterra al fine di scongiurare un imminente conflitto mondiale:

«Non aver timore, cara piccola. Sono la Madre di Dio, che ti parla e ti domanda di rendere pubblico il presente Messaggio per il mondo intero. Ciò facendo, incontrerai forti resistenze. Ascolta bene e fa attenzione a quello che ti dico: Gli uomini devono correggersi. Con umili suppliche, devono chiedere perdono dei peccati commessi e che potessero commettere. Tu desideri che io ti dia un segno, affinché ognuno accetti le Mie Parole che dico per mezzo tuo, al genere umano. Hai visto il Prodigio del Sole, e tutti, credenti, miscredenti, contadini, cittadini, sapienti, giornalisti, laici, sacerdoti, tutti lo hanno veduto. Ed ora proclama a Mio Nome: Un grande castigo cadrà sull’intero genere umano, non oggi, né domani, ma nella seconda metà del Secolo XX. Lo avevo già rivelato ai bambini Melania e Massimino, a “La Salette” ed oggi lo ripeto a te, perché il genere umano ha peccato e calpestato il Dono che avevo fatto. In nessuna parte del mondo vi è ordine, e satana regnerà sui più alti posti, determinando l’andamento delle cose. Egli effettivamente riuscirà ad introdursi fino alla sommità della Chiesa; egli riuscirà a sedurre gli spiriti dei grandi scienziati che inventano le armi, con le quali sarà possibile distruggere in pochi minuti gran parte dell’umanità. Avrà in potere i potenti che governano i popoli, e li aizzerà a fabbricare enormi quantità di quelle armi. E, se l’umanità non dovesse opporvisi, sarò obbligata a lasciar libero il braccio di Mio Figlio. Allora vedrai che Iddio castigherà gli uomini con maggior severità che non abbia fatto con il diluvio. Verrà il tempo dei tempi e la fine di tutte le fini, se l’umanità non sì convertirà; e se tutto dovesse restare come ora, o peggio, dovesse maggiormente aggravarsi, i grandi e i potenti periranno insieme ai piccoli e ai deboli. Anche per la Chiesa, verrà il tempo delle Sue più grandi prove. Cardinali si opporranno a Cardinali; Vescovi a Vescovi. Satana marcerà in mezzo alle Loro file, e a Roma vi saranno cambiamenti. Ciò che è putrido cadrà, e ciò che cadrà, più non si alzerà. La Chiesa sarà offuscata, e il mondo sconvolto dal terrore. Tempo verrà che nessun Re, Imperatore, Cardinale o Vescovo, aspetterà Colui che tuttavia verrà, ma per punire secondo i disegni del Padre mio. Una grande guerra si scatenerà nella seconda metà del XX secolo. Fuoco e fumo cadranno dal Cielo, le acque degli oceani diverranno vapori, e la schiuma s’innalzerà sconvolgendo e tutto, affondando. Milioni e Milioni di uomini periranno di ora in ora, coloro che resteranno in vita, invidieranno i morti. Da qualunque parte si volgerà lo sguardo, sarà angoscia, miseria, rovine in tutti i paesi. Vedi? Il tempo si avvicina sempre più, e l’abisso si allarga senza speranza. I buoni periranno assieme ai cattivi, i grandi con i piccoli, i Principi della Chiesa con i loro fedeli, e i regnanti con i loro popoli. Vi sarà morte ovunque a causa degli errori commessi dagli insensati e dai partigiani di Satana il quale allora, e solamente allora, regnerà sul mondo. In ultimo, allorquando quelli che sopravviveranno ad ogni evento, saranno ancora in vita, proclameranno nuovamente Iddio e la Sua Gloria, e Lo serviranno come un tempo, quando il mondo non era così pervertito».

La parte sottolineata sarebbe l’estratto parziale ed autentico dal Terzo Segreto. È del tutto evidente che nella versione ufficiale non ce n’è praticamente traccia. E la cosa sconcertante è che solo nel contesto di questo documento la parte in cui si parla del “Vescovo vestito di Bianco” assassinato trova un senso, giacché solo qui, infatti, si parla di una grande guerra mondiale che sembra effettivamente fare da sfondo a quella visione. Però non si deve affatto pensare che l’attentato al Papa del 1981 non abbia alcuna relazione con essa: tutt’altro! Proprio la coincidenza delle date indica un nesso evidentissimo e profondo, ma anche questo è un enigma da risolvere, e la sua soluzione potrebbe aiutarci a comprendere meglio la stessa profezia.

Innanzitutto, l’attentatore del Papa è Mehmet Alì Agca, un sicario membro dei famigerati “Lupi Grigi”, organizzazione terrorista turca improntata all’estremismo nazionalista ed islamico, braccio armato del Partito del Movimento Nazionalista (MHP), ma anche forza speciale di impiego in particolari teatri bellici; con profondi legami con gli ambienti militari ed i servizi segreti, ma anche con la mafia turca, e perciò coinvolta nel traffico di armi e droga. I Lupi Grigi prendono il loro nome dalla leggendario lupa Asena, che avrebbe allevato il capostipite dei Turchi, o da un ignoto lupo, loro antico progenitore mitico. Il mito d’origine turco ricorda molto il mito della lupa che allevò Romolo e Remo, il che può indurci a pensare alla nascita di un impero opposto a quello romano, il che è esattamente ciò che è stato l’Ottomano. Ma possiamo pensare anche al lupo Fenrir della mitologia nordica: l’essere infernale che scatenato alla Fine dei Tempi, proprio come il drago apocalittico, lotterà contro gli dèi, e divorerà Odino e il Sole e la Luna.

Già condannato a morte per l’omicidio del direttore di «Milliyet», Agca riesce stranamente a evadere da un carcere di massima sicurezza, cosa assolutamente impossibile senza la complicità non solo dei suoi carcerieri all’interno e dei suoi sodali all’esterno, ma soprattutto senza il beneplacito delle autorità. Infatti ne uscirà con un’uniforme dell’esercito e sotto scorta militare, proprio come un agente o un ufficiale di alto rango. In missione. Il Lupo Grigio annuncia pubblicamente l’intenzione di assassinare il Papa poco prima della sua prima visita apostolica in Turchia, nel 1979, la cui principale ragione è il riavvicinamento tra Chiesa Cattolica ed Ortodossa, finalizzato alla definitiva unità mondiale dei Cristiani, ma anche esprimere amicizia alla comunità cristiana armena, quella stessa che la Turchia aveva massacrato ad inizio secolo.

Dopo l’attentato fallito e la sua cattura, nell’intero processo a suo carico, il Lupo Grigio non farà che depistare in tutti i modi le indagini, coinvolgendo tutta una serie di soggetti internazionali, e persino la sua stessa organizzazione. Il dibattimento cercò infatti di dimostrare la responsabilità dell’Urss come mandante, per il tramite dei servizi segreti della Bulgaria, che avrebbero dovuto supportare in tutto e per tutto il sicario nella sua operazione, ma non solo tale tesi non trovò mai alcun riscontro, ma finora non sono mai stati nemmeno individuati documenti sovietici che denuncino l’intenzione del Kremlino di assassinare il pontefice. È quindi estremamente significativo che l’unica entità che Agca non chiamò mai in causa fu proprio lo “Stato profondo” della Turchia, evidentemente, in base alle circostanze, l’unico vero mandante possibile. Infatti, che per trovare la vera soluzione del giallo internazionale si dovesse battere proprio questa pista turca, furono i magistrati Carlo Palermo e Rosario Priore ad affermarlo convintamente, nelle audizioni della Commissione parlamentare d’inchiesta “Mitrokhin”. Ma non è ancora tutto, purtroppo. Nel 1997 i Lupi Grigi tentarono nuovamente, ma inutilmente, di assassinare il Pontefice a Sarajevo. Dall’epoca del primo attentato al Papa, il loro movimento, che ha sempre avuto una vasta rete in tutta Europa, non ha fatto che crescere in Turchia, e attualmente il Partito del Movimento Nazionalista sostiene Ergogan all’interno di una coalizione di governo. Ed è bene ricordare che l’ideologia del MHP fissa come obbiettivo primario l’unione politica di tutti le nazioni turcofone del mondo, il che si sposa perfettamente con la visione imperiale dell’attuale neo-ottomanesimo turco.

Torniamo quindi alla profezia di Fatima e alla visione terrificante che abbiamo riportato: la città martoriata è probabilmente Roma, che appare distrutta a causa di un evidente evento bellico. Dunque chiediamoci: che tipo di esercito avrebbe mai interesse a massacrare senz’alcuna pietà degli inermi religiosi cattolici? Senz’alcun dubbio un esercito anticristiano. E anticristiani sono certamente i Lupi Grigi e il loro partito. Il che ci riporta direttamente all’inizio della nostra indagine: all’Anatolia dell’Apocalisse. La nostra conclusione è che l’attentato al pontefice, pur nella sua drammaticità, sia da interpretare anche come un provvidenziale segno rivelatore di quella parte dello stesso Segreto di Fatima che è rimasta finora nascosta: la futura, mostruosa persecuzione planetaria del Cristianesimo avrà origine in Turchia, perché sarà proprio qui che l’Anticristo fonderà il suo impero mondiale e designerà Istanbul come sua capitale. E perciò sarà dalla Turchia che si scatenerà l’invasione dell’Europa che colpirà i Cristiani. Ed è lo stesso Papa Giovanni Paolo II ad avvalorare in maniera eclatante questa tesi, giacché nel Marzo del 1993 affidò alla memoria del fidato monsignor Mauro Longhi un’altra terribile profezia4:

«Ricordalo a coloro che tu incontrerai nella Chiesa del terzo millennio. Vedo la Chiesa afflitta da una piaga mortale. Più profonda, più dolorosa rispetto a quelle di questo millennio”, riferendosi a quelle del comunismo e del totalitarismo nazista. “Si chiama islamismo. Invaderanno l’Europa. Ho visto le orde provenire dall’Occidente all’Oriente”, e mi fa una ad una la descrizione dei paesi: dal Marocco alla Libia all’Egitto, e così via fino alla parte orientale. Il Santo Padre aggiunge: “Invaderanno l’Europa, l’Europa sarà una cantina, vecchi cimeli, penombra, ragnatele».

Questa visione catastrofica è stata spiegata con una certa dote profetica del Pontefice, che certo non discutiamo, ma non si può neppure far a meno di pensare che tale tremendo avvertimento provenisse direttamente dal Quarto Segreto che egli ben conosceva.

La centralità dell’Anatolia nelle vicende cruciali dei Tempi Ultimi andrebbe infine collegata ad un altro importante antico enigma cristiano, anch’esso apocalittico: l’identità del misterioso Katechon, l’entità che è detta trattenere l’Anticristo dal suo manifestarsi e scatenarsi nel mondo. Anche qui i tentativi di soluzione sono stati molti, però si dovrebbero considerare fattori umani e sovrumani. Il primo Katechon in assoluto è certamente Dio stesso, Cristo, e dopo di Lui, Michele, l’Arcangelo Suo servo, che infatti proprio nell’Apocalisse è colui che tiene prigioniero Satana nel pozzo dell’abisso, così come è colui che ad un certo punto lo libera per un tempo prestabilito. Ma, in terzo luogo, anche le Sette Chiese esercitano la funzione del Katechon in mezzo agli uomini, infatti ad ognuna di esse presiede un angelo, e ciascuno evidentemente agisce nello stesso senso catecontico. Esiste dunque una precisa e necessaria sinergia catecontica tra le potenze angeliche celesti e le forze ecclesiali terrestri. D’altronde queste Sette Chiese non rappresentano altro che l’unica ed universale Chiesa, il Cristianesimo medesimo nella sua totalità, senonché esse sono la sua avanguardia di difesa, il suo fronte più avanzato nel contrasto a Satana, il baluardo il cui eventuale crollo sarebbe catastrofico. Quindi, finché i Sette Angeli e le Sette Chiese eseguiranno il compito loro assegnato, la Turchia non potrà attuare la propria offensiva anticristiana, e l’Anticristo non potrà sorgere, ma quando cesseranno tale protezione, quando il Cristianesimo stesso sarà stato spazzato via dalla Turchia, allora l’Anticristo potrà scatenarsi e conquistare il mondo. Dio non voglia.

1 Giovanni Tateo Milano, Turchia: l’Apocalisse e la geopolitica, OZ Orizzonte Zero, anno III, n° 29, Settembre 2023.

2 Molti libri ed articoli sono finora stati scritti sulla complessa questione da importanti vaticanisti come Antonio Socci, Marco Tosatti, Aldo Maria Valli, Saverio Gaeta, Solideo Paolini, etc. (li nominiamo in ordine casuale). Qui ci limitiamo a segnalare giusto qualche intervento, senza una particolare preferenza, perché il lettore se ne faccia un’idea sufficiente:

Antonio Soccci, Il Quarto Segreto di Fatima, 05/01/2006;

Antonio Socci, Due papi e il mondo tra i misteri di Fatima, Libero, 13/10/2013;

Marco Tosatti, Fatima, torna il mistero del Terzo segreto, La Nuova Bussola Quotidiana, 13/03/2017;

Monsignor Viganò: «Il terzo segreto di Fatima è stato insabbiato», 22/04/2020;

Maria Guarini, Fatima, il terzo segreto. Permane il mistero della parte non svelata, Chiesa e post concilio, 14/03/2017.

3 Franco Adessa, Il Terzo Segreto di Fatima: una testimonianza, Chiesa viva, anno XLIII, n° 462, Luglio-Agosto 2013.

4 Valerio Pece, La visione di Giovanni Paolo II: «L’islam invaderà l’Europa», La Nuova Bussola Quotidiana, 18/11/2017.

(Fenix n° 181, Novembre 2023)

 

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Turchia: l’Apocalisse e la geopolitica

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di Giovanni Tateo Milano

 

 

Considerati gli eventi degli ultimi anni, forse non a torto molti ritengono che le profezie racchiuse nell’Apocalisse di S. Giovanni di Patmos riguardino precisamente l’epoca attuale, e pertanto nuove riflessioni e discussioni in merito si moltiplicano. Tuttavia la corretta interpretazione del principale testo profetico cristiano è sempre risultata un’impresa quasi impossibile, perché i fatti che preannuncia sono estremamente difficili da collocare in un tempo ed uno spazio precisi e riconoscibili. Alcuni anni fa, però, un teologo, il professor Walther Binni, ha espresso una tesi che sembra davvero la chiave fondamentale per fare definitivamente luce sugli eventi dei Tempi Ultimi. Innanzitutto ha sottolineato il fatto inoppugnabile che le Sette Chiese dell’Asia a cui si rivolge il profeta, ossia le comunità cristiane di Sardi, Laodicea, Pergamo, Smirne, Efeso, Filadelfia e Tiatira, fossero tutte situate in Anatolia. Ciò evidentemente significa che gli eventi decisivi della Fine dei Tempi dovranno realizzarsi proprio nell’attuale Turchia, la quale, subito dopo la Palestina, fu l’antica patria del Cristianesimo nascente. Su questo fondamentale presupposto, Binni ha sostenuto che la Babilonia apocalittica sia da identificarsi in Istanbul, giacché corrisponde in maniera perfetta alla sua descrizione. Infatti, la città turca non solo sorge su sette colli, proprio come Roma, ma, a differenza di questa, è effettivamente una città sul mare, da sempre dotata di importanti porti internazionali. Inoltre essa è topograficamente divisa in tre settori. Naturalmente tutti questi indicatori trovano piena conferma sia nella lunga, gloriosa e tormentata storia della città che nella sua enorme importanza geopolitica passata, presente e certamente futura. Quindi, dovrebbe essere Istanbul, e non Roma, od altre importanti città, la futura Babilonia, ossia la capitale dell’incombente regno globale dell’Anticristo.

Si tratta quindi ora di immaginare verosimilmente uno scenario, o meglio un intero processo storico, che porti in futuro la Turchia e la sua Istanbul a divenire il nuovo centro del mondo, una realtà talmente potente da riuscire effettivamente a edificare un impero satanico planetario.

Ma prima di addentrarci in questo discorso bisogna innanzitutto ricordare che l’attuale Istanbul un tempo era Costantinopoli, già Bisanzio, la capitale dell’Impero Romano d’Oriente, dunque una città che possiede già un passato ed una vocazione imperiali. Ma un passato ed una vocazione imperiali vanta innanzitutto l’intera Anatolia, in quanto regione centrale dello stesso impero cristiano e di quello ottomano. Quindi sia per Istanbul che, più in generale, per la Turchia si deve riconoscere una notevole importanza planetaria, e ciò sia per la posizione geografica, eminentemente strategica, che per il ruolo geopolitico primario giocato nel quadro delle passate come delle attuali vicende storiche. Ma ancor più specificamente, si deve sottolineare il significato dell’evento che fece di Costantinopoli, capitale imperiale bizantina, Istanbul, capitale imperiale ottomana, poiché testimonia in maniera plastica la costante storica secondo cui l’imperialismo islamico, fin dalle sue origini, è sempre stato la minaccia primaria al mondo cristiano. Anzi, prim’ancora del Comunismo, esso è stato il principale persecutore del Cristianesimo, il suo nemico per eccellenza, in ciò manifestando un evidentissimo ed indiscutibile carattere anticristico. Infatti, un altro elemento importante che rende estremamente plausibile che la Turchia possa dar vita al futuro Stato globale dell’Anticristo, stante il fatto che questo darà luogo alla più grande persecuzione del Cristianesimo mai attuata nella Storia, “la grande tribolazione”, è che essa si è purtroppo già resa colpevole del genocidio sistematico degli Armeni ad opera del governo dei Giovani Turchi. Nulla infatti impedirebbe il ripetersi di una politica del genere, e sull’assai più vasta scala planetaria, qualora vi fossero nuovamente tutte le condizioni necessarie, a cominciare da un’ideologia ed una volontà politica orientate in quel senso.

Dunque, innanzitutto si deve sottolineare come la Turchia si trovi al crocevia di tutta una serie di canali di approvvigionamento energetico, oleodotti e gasdotti, tra quelli già presenti ed operativi e quelli in via di realizzazione, così come lo è rispetto ad una serie di importanti vie commerciali tra oriente ed occidente, come la famosa “via della seta”, come sempre stato in passato. Inoltre, recentemente lo stesso si può dire addirittura per l’approvvigionamento alimentare, se si pensa al suo fondamentale coinvolgimento nell’accordo tra Russia e Ucraina riguardo al grano.

Non è affatto un caso che proprio oggi sia analisti che personalità politiche parlino continuamente delle ambizioni imperialiste di stampo neo-ottomano della Turchia del premier Recep Tayyip Erdogan. Ambizioni che si traducono effettivamente in una strategia ed un’attività ad ampio spettro sull’intera scena mondiale. La Turchia infatti non solo si è modernizzata con estrema rapidità negli ultimi anni, crescendo continuamente sia dal punto di vista economico, che politico e militare, diventando un’effettiva potenza regionale, ma, a livello internazionale, è attivamente presente in ogni scenario di crisi globale. Ciò è avvenuto e sta ancora avvenendo in quella libica, in quella siriana, e nella recente crisi ucraina, senza contare altre situazioni di non indifferente importanza in aree come quella dell’Azerbaijan, del Kazakistan, del Nagorno Karabak, etc, e certamente prossimamente anche in quella dei Balcani. In pratica, ovunque vi sia nel mondo una grave crisi geopolitica, la Turchia svolge un ruolo tale da poter esercitare una notevole influenza e raggiungere determinati obbiettivi strategici a breve e lungo termine. Anche se in passato ha mancato di conseguirne alcuni, ciò innanzitutto dimostra che essa ha già provato ad attuare una concreta strategia neo-ottomana. Inoltre, quel fallimento dev’essere considerato solo momentaneo, perché appunto questa nazione cerca certamente di imparare dai propri errori, e di porsi nelle condizioni necessarie per non ripeterli. Infatti sbaglierebbe chi misurasse l’importanza geopolitica della Turchia sulla sola base della sua potenza individuale, giacché la sua reale capacità di influenza e proiezione sullo scacchiere mondiale consisterà soprattutto sulla sua capacità di porsi alla guida del variegato e frammentato mondo islamico. Nel successo che potrà effettivamente ottenere nell’eliminare tale frammentazione, riuscendo invece a federare in senso imperiale le varie nazioni islamiche in tutti i continenti. Ad esempio, un suo epocale successo sarebbe riuscire finalmente a ricomporre il secolare conflitto tra Sciiti e Sunniti, riuscendo nel contempo a stabilizzare definitivamente il Medioriente con un’alleanza che comprendesse l’Iran, l’Iraq e l’Arabia Saudita, oltre a Libano e Siria. Non escludendo affatto anche un patto di cooperazione con Israele. Tutti questi obbiettivi al momento non sembrano a portata di mano, ma ciò che si deve tenere ben presente è che la forza della Turchia dipende in gran parte dalla debolezza dei suoi competitori od avversari. Bisogna infatti considerare la profonda differenza tra l’attuale classe dirigente turca e quella di altri blocchi politici, come ad esempio la Ue: a differenza di quest’ultima, la prima oltre ad esse estremamente determinata, dinamica e spregiudicata, ritiene di avere una missione storica epocale da compiere, e possiede una visione strategica chiarissima, nonché la piena consapevolezza del notevole potenziale della propria patria, che intende accrescere e realizzare al massimo. Per averne un’idea più chiara, un altro lampante esempio di classe dirigente consapevole e determinato allo stesso livello potrebbe essere quello russo o quello cinese. E mentre il mondo islamico, pur politicamente diviso e attraversato da tensioni, rivalità o aperte ostilità, è in grado di concepire ed esprimere una politica “islamica”, e non perdere mai di vista l’occidente ed il mondo cristiano quali nemici o bersagli storici costanti, il “grande Satana”, di contro non esiste affatto una “politica cristiana”, anzi l’occidente è sostanzialmente, e sempre più, politicamente non cristiano o addirittura anticristiano.

Ma la Turchia trae vantaggio proprio da tutti quegli scenari critici, o addirittura caotici, in cui essa può inserirsi per far valere i propri interessi. Ovunque vi sia divisione o addirittura disintegrazione, essa può intervenire per ricomporre delle fratture oppure, al contrario, per portare i conflitti alle loro estreme conseguenze, in modo che gli elementi antagonisti vengano eliminati. Ordo ab chao. Pertanto anche la stessa Russia, nella competizione con la Turchia, non potrà che restare penalizzata dalla sua belligeranza con l’Ucraina, soprattutto se questa dovesse coinvolgere direttamente la Nato ed estendersi all’intera Europa. A meno che, giunti ad un certo scenario, la Russia non si alleasse militarmente con la stessa Turchia.

Dunque, ogniqualvolta la Turchia dovrà entrare in diretto conflitto armato con un contendente, essa adotterà una strategia simultanea di attacco militare dall’esterno e di destabilizzazione dall’interno, facendo leva proprio sul fattore della fratellanza islamica per attivare elementi terroristici o moti insurrezionali.

Passiamo ora a cercare di illustrare quale sarebbero i principali passi strategici che consentirebbero progressivamente alla Turchia di edificare il suddetto Superstato anticristico.

In primo luogo, essa dovrebbe puntare ad un’espansione considerevole del proprio territorio nazionale realizzando l’unità politica di tutte le aree turcofone dell’Asia centrale. In effetti, esiste già un organismo di cooperazione ad ogni livello, eccetto per ora quello militare, tra le nazioni turcofone: l’Organizzazione degli Stati Turchi, che coinvolge, oltre ovviamente la stessa Turchia, il Kazakistan, l’Azerbaigian, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan e la Repubblica turca di Cipro del Nord.

Limitandosi alla riunione delle nazioni continentali, questa nuova Grande Turchia potrebbe assumere convenientemente la forma di una Federazione Turca. Naturalmente dovrebbe conquistate Georgia e Armenia, che ostacolano una connessione geografica ottimale tra gli stati aderenti, così come dovrebbe definitivamente eliminare la presenza curda.

Essa potrebbe ottenere il beneplacito per questa unificazione proprio in funzione anti-russa ed anti-cinese, infatti gli Usa potrebbero o dovrebbero considerare questa Federazione Turca come una proiezione profonda ed importante della Nato nell’Asia centrale, penetrazione strategica del tutto impossibile diversamente. Inoltre un simile sviluppo risulterebbe fin d’ora coerente col piano di accerchiamento della Russia già attuato con l’espansione della Nato nell’Europa orientale e settentrionale, che così potrebbe minacciare anche la Cina.

Dunque trasformare questo organismo turco in una Federazione Turca sarebbe il primo passo importante in vista di un nuovo impero neo-ottomano, considerata sia la vastità del territorio complessivo che le notevoli risorse di vario tipo di cui essa disporrebbe.

Sulla base di questo successo epocale, questa Federazione Turca dovrebbe porsi alla testa di un altro importante organismo: l’Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci), finalizzato alla cooperazione a tutti i livelli tra 57 nazioni a maggioranza islamica. Sotto la sua guida, questa entità potrebbe tramutarsi in una vera e propria nuova federazione di Stati islamici, o, perlomeno in una fase anteriore, in un’alleanza militare del tutto analoga alla Nato. A tali scopi, la Federazione Turca dovrebbe portare avanti una duplice strategia: diplomatica, orientata alla risoluzione permanente di qualunque tensione, rivalità o conflitto tra i membri, ed economica, finalizzata alla modernizzazione di tutte quelle aree ancora arretrate e insufficientemente sviluppate. Un fattore determinante dovrebbe essere senz’altro quello monetario: la Federazione Turca per prima dovrebbe praticare una politica di piena sovranità monetaria, dotandosi innanzitutto di una moneta ancorata ad una consistente riserva aurea statale. In secondo luogo, dovrebbe ovviamente servirsi di una banca centrale totalmente posseduta dallo Stato e gestita esclusivamente dal governo nazionale. Sulla base di queste direttrici parallele, essa dovrebbe intessere una rete onnicomprensiva di collaborazioni ed interdipendenze capaci di superare definitivamente le prospettive nazionali particolari. L’Oci dovrebbe quindi creare una vasta macroarea islamica intercontinentale, contraddistinta da un’integrazione ed una sinergia strutturale talmente profonde da dar luogo organicamente al nuovo impero ottomano. Naturalmente, un elemento importante in tal senso sarebbe un’unificazione monetaria, estendendo a tutta questa macroarea l’adozione della nuova moneta turca sovrana, valuta islamica capace di vincere la competizione in termini di solidità e stabilità con qualunque altra straniera di tipo fiat, e quindi sostituire il dollaro quale valuta di scambio globale. Il nuovo secolo della Turchia dovrebbe quindi portare con sé un nuovo secolo islamico.

Stabilizzata dunque l’unità politica di tutte queste nazioni un tempo già integrate nell’impero ottomano, si aprirebbe una nuova fase di conquista dell’Europa meridionale. A partire dalle coste del Nordafrica così come da Cipro e Malta, nonché dai Balcani già federati a cominciare da Albania, Bosnia e Kosovo, il nuovo impero turco dovrebbe impossessarsi della Sicilia, innanzitutto, e poi di Sardegna e Corsica, per poi, dopo averla circondata, attaccare direttamente l’Italia innanzitutto nel sud. Dall’altro lato, invece, verso ovest, dovrebbe iniziare un’altra offensiva contro la Spagna prima e la Francia poi. Presa la Spagna, almeno nella sua parte meridionale e sudoccidentale, sarebbe necessario occupare saldamente Gibilterra in modo da sigillare ermeticamente il Mediterraneo, impedendo qualunque intrusione dall’Atlantico, in modo da escludere qualunque intervento da parte dell’alleato Nato mirante a impedire o limitare il suo dominio.

Tutto ciò dovrebbe compierlo contando sulle sue sole forze, ma sfruttando, almeno fino ad un certo punto il suo status di membro della Nato, in modo da non subire interferenze da questa alleanza.

Tutto il resto, invece, la Federazione Turca dovrebbe realizzarlo sfruttando le conseguenze dei conflitti tra gli altri grandi attori della scena mondiale, ossia ovviamente gli stessi Usa, Russia e Cina. Il conseguimento degli obbiettivi strategici turchi dipende imprescindibilmente dal fatto che essi siano troppo impegnati in tali scontri armati per consentirsi anche di impedire alla Turchia la sua ascesa egemonica. Ma non solo, perché tali conflitti dovrebbero provocarne la totale distruzione, oppure arrivare a consumarli e logorarli al punto tale da ridurne considerevolmente la potenza, ridimensionandone il ruolo mondiale e rendendoli in ogni caso estremamente vulnerabili, consentendo così alla Federazione Turca di superarli definitivamente. L’astuzia della Turchia, già osservata finora, dovrebbe ancora consistere in futuro nel fingere solamente di essere un indispensabile alleato Nato, senza però mai farsi coinvolgere attivamente in uno scontro armato con la Russia o con la Cina, lasciando che siano Usa e Ue a combattere da soli le proprie guerre contro di esse. La Turchia dovrebbe combattere unicamente dove sono in gioco i suoi effettivi interessi, e dove la vittoria sia effettivamente a portata di mano. In verità, se dovessimo condurre fino in fondo il nostro ragionamento sugli imminenti conflitti globali tra le attuali superpotenze, non possiamo che avanzare un terribile sospetto, giacché, considerato il rapporto tra costi e guadagni dello sforzo bellico, non ci sembra affatto che alcuna di essa possa mai avere un effettivo interesse a esserne coinvolta o a scatenarli. Partiamo dal presupposto che una Terza Guerra Mondiale può essere combattuta o con armi di distruzione di massa oppure con armamento convenzionale. Il primo caso non potrebbe che portare ad una mutua distruzione assicurata, pertanto non resterebbe che la guerra convenzionale. In questo caso, chiunque possa essere il vincitore, un’effettiva occupazione militare del territorio del soccombente è praticamente impossibile, quindi l’unico esisto sarebbe la distruzione della sua capacità economica e militare. Ma è impensabile che nel quadro del violento conflitto globale che si prospetta il vincitore non riporti comunque enormi danni e perdite. In effetti, quindi, pare davvero che tutti i contendenti abbiano certamente molto, se non tutto, da perdere e ben poco da guadagnarci. Eccetto però proprio quell’attore globale che ne resti fuori, ed intervenga solo nella fase terminale dello scontro, per dare il colpo di grazia ai perdenti e partecipare alla spartizione delle spoglie. In questo caso, già da quel che possiamo osservare oggi, il conflitto tra la Nato e la Russia sembra fatto apposta per favorire la Turchia in tutti i modi possibili.

Abbiamo dunque illustrato un verosimile panorama storico di prossima ventura, che evidenzia quanto possa essere grande il vantaggio conferito dal saldo affidamento alle sacre profezie quando si tratta di scrutare in profondità un futuro doppiamente oscuro per la sua enigmaticità e la sua tragicità. Per un vero credente, infatti, le profezie convalidate dall’autorità spirituale legittima, specie se racchiuse nei testi sacri canonici, non sono e non devono rappresentare unicamente l’eredità, talvolta remota, del proprio patrimonio religioso, bensì costituire un elemento importante di orientamento e discernimento rispetto ai fatti della Storia presente e avvenire. Tali profezie devono quindi essere considerate come verità sempre attuali ed illuminanti, ossia capaci di far comprendere o riconoscere i connotati reali delle epoche o degli eventi a cui si riferiscono, sia quando questi si sono ormai manifestati che quando stanno per manifestarsi. Il nostro auspicio, quindi, alla luce di tutto questo, è che il mondo cristiano possa prima possibile rendersi consapevole dell’enorme minaccia che sempre più rapidamente prende corpo e si avvicina, affinché possa cercare il più possibile di sventarla efficacemente.

(OZ Orizzonte Zero n° 29, Settembre 2023)

 

 

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Alcune precisazioni sui cicli cosmici ed i Tempi ultimi. Parte III

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Il Tramonto dell’Età oscura come fase storica attuale

di Giovanni Tateo Milano

Nell’articolo precedente abbiamo pronosticato una probabile Fine dei Tempi nell’anno 2054, e lo abbiamo fatto basandoci esclusivamente sull’applicazione della scienza sacra dei cicli cosmici ai cruciali dati simbolici e cronologici che si sono resi disponibili, ma in verità siamo stati spinti a rielaborare questa indagine, condotta a suo tempo, a partire da altre gravi considerazioni sul momento presente ed i suoi futuri sviluppi, e sono proprio queste riflessioni che intendiamo ora esprimere. Infatti, ciò che ci ha persuaso, anzi ci ha costretto, a formulare quella drammatica previsione è stata innanzitutto l’osservazione dei mostruosi fenomeni storici in atto, i rivelatori segni dei tempi che si impongono alla nostra coscienza.

È infatti davvero impressionante la rapidità con cui in tutto il mondo contemporaneamente si stia affermando un nuovo sistema sociale totalmente opprimente, alienato ed alienante, come non se ne era mai visto un altro prima. Qualcosa di cui avevamo già una precisa idea solo grazie a tutta una serie di celebri, e purtroppo profetici, romanzi distopici o film di fantascienza. Dall’oggi al domani, infatti, abbiamo visto stravolgere l’intera società e tutte le nostre vite con essa. Improvvisamente tutti gli schemi ed i punti di riferimento che avevamo sono stati travolti con una violenza inimmaginabile. Tutto ciò che davamo per scontato è scomparso subitaneamente davanti ai nostri occhi. Ogni certezza è svanita nel nulla, ed ogni speranza o prospettiva per il futuro è stata quasi cancellata. Di colpo siamo stati precipitati in un’esistenza che si fa sempre più grottesca, surreale e claustrofobica in un modo ferocemente disumano. Scaraventati in un incubo che pare senza fine e senza via d’uscita. Il corso dei recenti eventi ci è parso quindi accelerare vertiginosamente verso una situazione complessiva dell’Umanità che l’Apocalisse cristiana ha profetizzato più di duemila anni fa. Siamo infatti tutti testimoni diretti dell’ultimo sviluppo di quel grande processo storico di unificazione dell’intero pianeta, che eufemisticamente abbiamo sempre chiamato “globalizzazione”, all’interno di un unico sistema economico, politico, culturale, e crediamo persino morale e religioso, o meglio amorale e pseudoreligioso.

Ma procediamo con ordine, partendo da un’indispensabile premessa.

Quando appunto abbiamo affermato che nel giro di appena qualche decennio giungeremo alla Fine dei Tempi, quello che intendevamo ed intendiamo dire è che entro questo brevissimo lasso di tempo l’attuale ciclo umano, ossia lo stesso stato umano in sé, toccherà drammaticamente il suo punto più basso mai vissuto, e raggiungerà così il suo stadio terminale. E questo è quello che precedentemente abbiamo riconosciuto ed indicato quale Tramonto dell’Età oscura. In estrema sintesi possiamo dire che in questa fase, da un lato la natura umana stia esprimendo davvero sempre più il peggio di se stessa, e dall’altro che essa stia davvero raggiungendo il limite estremo in cui la sua intima essenza può essere violentata e snaturata. Ovviamente non si devono generalizzare in maniera assoluta queste considerazioni, estendendole all’intera Umanità indifferentemente, perché in ogni caso ogni singolo individuo possiede chiaramente una propria specifica personalità ed un destino unico, ma è necessario affermare che esiste una fondamentale sinergia tra l’andamento discendente o terminale della fase cosmica attuale, che implica l’impatto sempre più forte e determinante delle potenze infernali e demoniache, e le caratteristiche e le tendenze umane negative propriamente dette. Quindi, se da un lato stiamo oggettivamente attraversando una stagione cosmica di decadimento, distruzione ed oscuramento in tutti i sensi, dall’altro è altrettanto oggettivo che storicamente si stiano attuando quelle residue possibilità umane, intese sia come singoli individui generati che come qualità e predisposizioni di uno stesso soggetto, che, anche in senso solo relativo rispetto alle generazioni di precedenti fasi cicliche, su tutti i piani tendono a connotarsi perlopiù in senso negativo o peggiorativo.

Cerchiamo, dunque, innanzitutto di definire un solido criterio utile a capire realmente se stiamo effettivamente vivendo nella fase terminale dell’Età oscura. Partiamo quindi dalla definizione di un ciclo storico dell’Umanità, il Manvantara induista, come il percorso cosmico di attuazione e manifestazione di un intero complesso di possibilità umane, intese sia quali singoli individui e collettività, destinate ad apparire generazione dopo generazione, e sia come qualità e tendenze umane capaci di caratterizzare in maniera unica ed irripetibile ciascuna delle successive epoche della Storia.

Ebbene, se il grande ciclo consiste essenzialmente nella successiva realizzazione di tutte le possibilità umane di cui il ciclo stesso è capace, e se il suo andamento procede da un iniziale stato di perfezione dell’Umanità ad uno stato conclusivo caratterizzato da una sua corruzione o degenerazione talmente estrema da arrivare quasi ad una vera e propria negazione della stessa realtà umana, e ciò in tutti gli aspetti e le forme possibili, allora non dovremo far altro che verificare se attualmente si sia effettivamente giunti ad una situazione così assurda e tragica oppure no. E si badi bene che ad un tale esito finale non si potrebbe mai giungere se non attraverso un immenso rovesciamento delle condizioni e delle prospettive dell’umana esistenza, tale da rendere realmente la Razza umana acerrima nemica di se stessa. Dunque rovesciamento e negazione dell’umano nella più estrema misura saranno esattamente i connotati definitivi atti a caratterizzare la fase finale dell’Età oscura, e a consentirci di identificarla infallibilmente. Coerentemente con tutti questi ragionamenti, comprenderemo se effettivamente ci troviamo in quell’epoca dal fatto che le possibilità umane dimostrino o meno di stare effettivamente esaurendosi definitivamente e rapidamente, e ciò si potrà riconoscere nel momento in cui si paleserà o meno un limite invalicabile allo stesso sviluppo storico dell’Umanità.

Dunque, come prima ed immediata osservazione sul presente, bisogna dire che stiamo chiaramente assistendo allo sgretolamento totale, al collasso completo, all’implosione sempre più evidente della società e della cultura borghese, con tutto il suo corollario politico, giuridico ed economico. Ma il cambiamento politico e sociale è appunto l’aspetto meno grave della definitiva catastrofe attuale, anche se è proprio questo il suo motore propulsore proprio a causa dell’assetto borghese del nostro mondo. Infatti, essendo la Storia umana essenzialmente di natura spirituale e mentale, è innanzitutto dal punto di vista dell’assetto della coscienza che bisogna riconoscerne la sostanza. È la stessa mentalità borghese, lo “spirito borghese”, o meglio lo “spirito della modernità”, quello che fino ad ora si era vanamente nutrito del mito del progresso infinito, quello che è sostanzialmente materialista e ateo, a stare accusando la propria bancarotta, il proprio fallimento totale, segnato dalla sempre più prossima fine definitiva di tutte le proprie illusioni. Tali illusioni sono quelle stesse che giustamente Guénon considerava quali inevitabili conseguenze della fondamentale “illusione della vita ordinaria” e della “superstizione della vita”. La tremenda disillusione in atto, o meglio il drammatico crollo interiore collettivo, è rivelato dall’enorme epidemia di malattie mentali, a sfondo perlopiù depressivo ed autodistruttivo, che si registra in maniera crescente. Depressione ed angoscia sono il carattere predominante, lo sfondo psichico di questi tempi, e costituiscono la vera natura della “melencolia” a cui Dürer precisamente alludeva. Questo “umore nero” dell’anima si presenta in tre modi: 1) essa non crede in nessun modo all’esistenza di Dio, e si considera preda di un universo caotico, insensato, crudele e spietato; 2) non crede alla Sua Provvidenza, ossia non crede che Dio possa mai amarla, o che l’abbia abbandonata per sempre, oppure, peggio ancora, che l’abbia addirittura maledetta e condannata ad un Inferno da patire su questa stessa Terra; 3) non crede in se stessa, ossia nel significato e nel valore della propria essenza e della propria esistenza nel mondo.

Di conseguenza, l’alienazione, la demenza, la follia divengono sempre più il reale marchio interiore che identifica esattamente la fase storica attuale, anzi l’Umanità attuale, e si manifestano sempre più platealmente, da un lato con la sempre minore capacità di consapevolezza della realtà, dall’altro col conseguente o concomitante capovolgimento completo di qualunque logica normale debba presiedere alle dinamiche della coscienza e dell’esistenza, ancora una volta sia nella dimensione individuale che collettiva. E questa alienazione collettiva ed individuale non potrà che prendere due strade, sia parallele che convergenti e rinforzantisi reciprocamente, ossia appunto quella mentale della depressione o della demenza, oppure quella spirituale dell’ossessione o della possessione diabolica in senso vero e proprio. Ma la causa scatenante di tutto ciò non è infatti solamente di natura psicologica o psichiatrica, ma è appunto anche, o soprattutto, spirituale, giacché la progressiva distruzione o cancellazione del Divino e del Sacro, sia nella coscienza che nella vita sociale, porta con sé due conseguenze assolutamente fatali, ossia, in primo luogo, la progressiva perdita dell’unità e dell’integrità interiori, la quale tende effettivamente ad una vera e propria disintegrazione interna dell’individuo; in secondo luogo, la cancellazione del principio di inviolabilità dell’essere umano e della sua esistenza. E la cosa dovrebbe essere assolutamente evidente, giacché affermare che l’essere umano e la sua vita sono sacre non significa solo affermarne l’origine divina e la natura spirituale, ma conservarne l’integrità e sancirne, moralmente e giuridicamente, anche la necessaria inviolabilità. Per cui, nel momento stesso in cui l’Uomo e la sua esistenza cessano di legarsi costitutivamente al Divino ed essere sacri, a tutti gli effetti cessano anche di conservare spiritualmente e psichicamente la propria unità ed integrità interiori, così come di essere considerati inviolabili e rispettati e protetti come tali all’interno della società.

Segno massimamente evidente di ciò che minaccia l’essenza e l’esistenza umane è l’idea aberrante che l’essere umano sia un’entità assolutamente manipolabile a piacimento, come fosse duttile materia amorfa, e ciò perché si assume che l’identità essenziale o la qualità intrinseca di un individuo, sia interiore che fisica, non sia affatto un suo dato naturale e costitutivo, determinato alla nascita in base alla sua essenza, al suo destino e per sempre, ma che sia invece un mero stato mentale o biologico transitorio e permutabile, o addirittura un costrutto psicologico o culturale, una convenzione pura e semplice, un qualcosa che si possa determinare prima della stessa nascita oppure in seguito, in base alla percezione mentale od al mero desiderio del soggetto stesso, o di chiunque altro abbia il potere effettivo di ristrutturarne la fisionomia interiore così come quella esteriore. Quasi come se un essere potesse creare se stesso prima ancora di esistere, o essere creato o ricreato, da sé o da altri, in un qualunque momento successivo, mutando la sua prima nascita con una seconda totalmente artificiale. E la cosa si rende ancora più grave e spaventosa nel momento in cui, a qualunque livello e sotto qualunque aspetto, quindi sia fisico che mentale, tali processi di manipolazione artificiale possono essere applicati non solo a singoli individui, ma ad intere popolazioni.

Proseguendo ancora oltre nella nostra ricognizione, in questa discesa agli inferi contemporanei, ci si ritrova di fronte a prospettive che di umano oramai non presentano quasi più nulla.

Finalmente la grande ed abominevole illusione storica secondo cui l’Uomo deriverebbe evolutivamente dalle scimmie antropomorfe ha prodotto i suoi frutti più velenosi: assunto falsamente non solo che egli sia solo un animale in mezzo a tutti gli altri, ma che sia addirittura il peggiore di tutti in quanto distruttore della Natura, del pianeta Terra, sempre più crescono le spinte non solo ideologiche e culturali, che in tal senso vorrebbero neutralizzarlo, talvolta invocando addirittura la sua completa estinzione, ma anche quelle concretamente politiche, che auspicano programmaticamente una drastica riduzione della popolazione umana mondiale. Il volto disumano ed antiumano dell’ecologismo radicale, così come del Neomalthusianesimo che pare esserne il gemello, è dunque uno dei segni più fortemente riconoscibili del tragico tempo presente. Si attua dunque un capovolgimento totale in base al quale l’Uomo, da essere il migliore degli esseri viventi, tanto da porsi al centro del mondo naturale, dopo essere invece respinto idealmente ai suoi margini, rischia ora addirittura di esserne concretamente espulso, come una sua seconda cacciata dall’Eden. Al suo posto infatti, viene improvvisamente intronizzato al centro dell’esistenza e della Storia umana quello stesso mondo naturale che prima ne era solamente lo sfondo. Senza contare che non può esserci dubbio che, in un modo o nell’altro, una prospettiva storica di annientamento della Razza umana si è già concretizzata nel secolo XX° coi vari genocidi che si sono consumati ai danni di centinaia di milioni di vittime. E il supremo paradosso che in questa immane tragedia non deve sfuggirci, nuova dimostrazione dell’epocale rovesciamento dell’umano, è che le varie ideologie che hanno prodotto tali genocidi, tali enormi crimini contro l’Umanità, non sono che le ultime figlie degenerate dell’Umanesimo, ossia tutte le forme estreme dell’antropocentrismo materialista, del moderno umanesimo ateo e anticristiano.

Ma altre fosche mete sembrano approssimarsi minacciosamente all’orizzonte.

Poco prima della rivoluzione industriale, l’Uomo si era trovato di fronte ad un bivio: da un lato la prosecuzione dell’antica via che considerava come ideale centrale dell’Uomo l’edificazione, la coltivazione e l’elevazione di sé quale essere spirituale ed intelligente capace di creare cultura e civiltà, e dall’altro la strada del potenziamento incessante dei suoi strumenti tecnici al fine della produzione sempre più sofisticata ed estesa di beni e servizi, che conseguentemente avrebbero inaugurato l’industrialismo ed avviato l’era del capitalismo e del consumismo. L’Uomo decise di imboccare la seconda via ed allontanarsi parallelamente dalla prima, mortificando sempre più se stesso spiritualmente, intellettivamente e moralmente, poiché finì per ridursi sempre più ad un essere capace solamente di produrre, acquistare, consumare e godere.

Superato quindi un certo limite, o meglio un certo punto di non ritorno, in questa direzione, l’attuazione di questa “volontà di potenza”, di questo smisurato desiderio di autoaffermazione, non avrebbe potuto far altro che ritorcersi contro l’Umanità stessa, capovolgendosi nell’esatto opposto come sua totale negazione e nemesi. L’essere entrati nella cosiddetta “Era atomica” ha infatti dimostrato quanto questa seconda direttrice storica potesse essere pericolosa, giacché, con tutta evidenza, è stato proprio il progressivo perfezionamento della tecnologia bellica, inevitabile conseguenza dell’avanzamento scientifico e tecnologico generale, a condurre alla creazione di strumenti di distruzione di una potenza talmente estrema da essere capaci di provocare l’estinzione dell’intera Razza umana. E se tali armamenti nucleari ci sono già tristemente noti nella loro capacità distruttiva, in agguato si trovano ora anche letali armi biologiche, le conseguenze del cui possibile impiego possiamo solo lontanamente immaginare.

Ma queste non sono le sole conseguenze nefaste di questo processo storico, poiché l’esito ultimo dell’avanzamento tecnologico sta finalmente rivelando in maniera spaventosa il suo aspetto più oscuro ed angosciante, non solo per quanto riguarda i mezzi di controllo sociale e di manipolazione mentale delle masse, ma nelle nuove frontiere della trasformazione stessa dell’essere umano, sia attraverso la sperimentazione genetica più folle e criminale che nella preannunciata ibridazione uomo-macchina. La forsennata ricerca nell’ambito della robotica, e soprattutto in quello dell’intelligenza artificiale, inoltre, prepara un’epoca in cui l’essere umano tenderà a diventare effettivamente obsoleto, non solo quale produttore di beni e servizi, ma addirittura quale essere pensante. La stessa intelligenza umana, infatti, pare destinata o ad essere fusa con quella elettronica, o ad essere addirittura superata e sostituita da questa. Anche in questo caso, quindi, riconosciamo il completo rovesciamento della normale logica delle cose: la macchina, da mero strumento, diviene fine della civiltà umana, così come l’uomo, da esserne fine, diviene mero strumento; e siccome in questa sua dimensione meramente strumentale è ritenuto troppo imperfetto ed inefficiente, o verrà appunto presto integrato dalla protesi tecnologica, oppure, nell’esito estremo della sua svalutazione, verrà totalmente sostituito dalla sua controparte artificiale. L’Uomo verrà in gran parte soppiantato dall’androide, il nuovo Adamo, il coronamento di ogni sogno ed ideale ultimo della scienza e della tecnologia, la paradossale meta conclusiva del mito del progresso umano. Quelli che un tempo erano solo gli incubi della fantascienza, stanno ora diventando gli scenari concreti e di prossima realizzazione voluti e pianificati dal Transumanesimo.

Dopo l’eclissi del Divino e del Sacro, era stato l’idolo del lavoro, espresso col dogma economicista, borghese per antonomasia, ad offrire all’uomo moderno un facile surrogato di significato esistenziale accettabile, ma nel momento in cui, con l’avanzare della nuova economia, anche il lavoro cessa di essere la dimensione fondamentale dell’esistenza umana, e nel momento in cui anche la stessa intelligenza umana cessa di essere contemplazione vivente della Verità, e si riduce unicamente all’attività del calcolo, dell’amministrazione e della programmazione, ecco che l’Uomo pure si eclissa, e tende inevitabilmente a scomparire sia come produttore, perché sostituito dalla produzione automatizzata, che come intelligenza pensante, perché sostituito dall’intelligenza artificiale. Dunque si toccherà davvero il fondo dell’abisso quando l’Uomo non solo avrà totalmente cessato di essere un fine, tragedia in gran parte già consumata, ma avrà anche finito di essere persino un mero mezzo per il conseguimento di altro, perché a quel punto, nella logica massimamente perversa del nuovo sistema dominante, ogni sua utilità sarà di fatto venuta meno.

Un tempo non lontano, il capitalismo globale, secondo la sua imperante logica dell’accumulo del profitto, aveva necessità degli esseri umani sia come produttori che come consumatori, ma nel momento in cui il capitale si autoalimenta e si moltiplica indipendentemente dal lavoro e dallo scambio commerciale, esso non necessita più delle persone e dei popoli a nessun titolo, e quindi l’ideologia malthusiana ora più che mai minaccia le loro esistenze in quanto ritenute non solo superflue, ma nocive per il capitale definitivo che è il mondo naturale, il pianeta inteso come ecosistema da preservare a qualunque costo, in quanto bene di lusso riservato a pochissimi privilegiati. Anche qui si realizza il completo capovolgimento antiumano della logica alla base della realtà sociale e storica: un tempo il capitale non avrebbe dovuto essere altro che un mezzo utile al benessere umano, ma nel momento in cui esso è invece divenuto il fine ultimo dell’esistenza individuale e collettiva, l’esito finale di questa completa inversione dei princìpi e degli scopi è che il capitale si afferma nella totale negazione dell’Uomo quale essere necessario e centrale, e quale datore di significato alla vita e alla Storia, e nella conseguente esigenza di annientarlo in quanto minaccia per il godimento dei capitalisti, per i quali il pianeta ormai non è altro che una loro personale e definitiva proprietà privata. Anzi, sarebbe da aggiungere che, in un prossimo futuro, gli stessi esseri umani saranno ridotti a proprietà privata, convertiti in mero capitale vivente. D’altronde, la spregevole espressione “risorse umane” era già fin troppo significativa ed anticipatrice di questa dinamica conclusiva. Anche in questo non possiamo che constatare il completo capovolgimento dell’umanesimo borghese di cui il “sogno americano” era l’ideale per antonomasia. Quale esito storico potrebbe essere più estremo della fusione completa del capitalismo e del comunismo, che si attua paradossalmente, ossimoricamente, con una privatizzazione totale sia del pianeta che degli stessi esseri umani? Non sarebbe forse questa una vera e propria “fine della Storia”, già annunciata con troppo anticipo qualche decennio fa? E il compimento definitivo dell’Età oscura non sarebbe massimamente evidente proprio con l’espropriazione totale, la spoliazione completa, ossia spirituale, mentale, morale e fisica, dell’Uomo?

Egli dunque ha ormai perduto quasi del tutto persino il senso stesso di cosa significhi il suo essere uno spirito, un’anima, una coscienza, un’intelligenza vivente, e possedere una volontà ed esistere nel mondo in maniera significante. Avendo perso quasi totalmente l’idea stessa della propria essenza e del proprio destino naturale, la sua esistenza risulta talmente priva di significato e di valore da stare per consegnarlo al nulla, in parte nel senso di un prossimo annientamento fisico, ed in parte nel senso di una completa desolazione interiore ed esistenziale.

Dunque l’evidenza del sopraggiungere del termine del grande ciclo umano consiste precisamente in questo completo capovolgimento per cui l’esistenza e la Storia umana sta finendo per divenire completamente antiumana, in cui l’Uomo sta di fatto negando e distruggendo completamente la propria stessa natura e la propria esistenza. Lo scenario che sempre più velocemente si sta spalancando davanti ai nostri sguardi esterrefatti ed angosciati può quindi essere definito unicamente come l’allucinante tramonto della Razza umana.

Concludo ora questo scritto ricordando, ammesso che debba essercene bisogno, che il suo scopo è unicamente quello di trasmettere la consapevolezza che stiamo effettivamente vivendo nell’Era apocalittica, nei Tempi ultimi, e che davvero manca pochissimo alla Fine dei Tempi. Pertanto è assolutamente necessario che ognuno entri al più presto in una prospettiva esistenziale realmente filosofica ed escatologica, ossia che maturi il più rapidamente possibile una coscienza metafisica ed apocalittica, cioè che si renda al più presto capace di sollevare il velo dell’illusione che gli impedisce di sapere che la vera essenza, il vero significato ed il vero fine della vita umana è spirituale e trascendente. Che il nostro vero destino non appartiene affatto a questo mondo, ma a Dio e al Suo Regno eterno. Al nostro essere umani e divini.

Copyright © 2022 Giovanni Tateo Milano, tutti i diritti riservati all’autore.

Sulla dottrina dei cicli cosmici ed i Tempi ultimi – Parte II

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Il Tramonto dell’Età oscura e la Fine dei Tempi

di Giovanni Tateo Milano

Nel 2012, in questo stesso spazio, avevo pubblicato una mia recensione del libro di Louis Barmont, L’esoterismo di Albrecht Dürer, dedicato all’interpretazione esoterica della sua “Melencolia I”, nella quale mi ero concentrato su quello che avevo considerato il messaggio principale dell’opera, ossia il suggerimento, a coloro i quali avessero le necessarie conoscenze circa la dottrina dei cicli cosmici, di quale fosse il probabile momento della Fine dei Tempi. A partire dalla data cruciale, da lui evidenziata, dell’inizio dell’Età oscura dell’Età oscura, applicando appunto tale dottrina, ero giunto ad un risultato che oggi ritengo di dover necessariamente rettificare. Preciso che il calcolo effettuato all’epoca non era in sé affatto sbagliato, in quanto il metodo previsto, in base a tutte le circostanze del caso, era stato rispettato rigorosamente. Tuttavia, le considerazioni che più in là andrò ad esporre, e soprattutto alcune gravi riflessioni sul momento presente che costituiranno un ulteriore articolo, impongono un parziale cambiamento di approccio ed una conseguente revisione delle mie precedenti conclusioni.

Per chiarezza di esposizione, e per non mettere inutilmente in difficoltà il lettore meno avvezzo a tali questioni, sintetizzerò al massimo l’argomento di fondo, e rinvio fin d’ora all’articolo introduttivo che lo riguarda, per poi entrare immediatamente nel vivo della questione.

Ebbene, se il Manvantara dura 64800 anni, l’epoca ora in esame è la sua quarta ed ultima, ossia il «Kali Yuga», o «Età oscura», che dura un decimo di esso, ossia 6480 anni; ma la sua fase più tenebrosa, quella su cui più specificamente abbiamo dovuto indagare, è il suo quarto ed ultimo periodo, ossia il «Kali-Yuga del Kali-Yuga», o «Età oscura dell’Età oscura», pari analogamente alla sua decima parte, della durata quindi di soli 648 anni.

Prima della comunicazione del Barmont, la data d’inizio di quest’ultimo periodo era assolutamente ignota al grande pubblico, ma grazie a lui ora sappiamo che è stata il 1514, lo stesso anno in cui Albrecht Dürer firmava la sua enigmatica incisione.

A suo tempo, quindi, avevamo determinato la data della conclusione dell’Età oscura calcolando 1514 + 648 = 2162, momento corrispondente alla cosiddetta Fine dei Tempi.

Nel 2012 tale previsione, pur parendoci obbligata in base al procedimento esposto, ci aveva tuttavia lasciati con un certo dubbio residuo. Si trattava infatti di immaginare che fosse necessario almeno un altro secolo e mezzo prima che la decadenza della Storia umana toccasse davvero il fondo, e che sostanzialmente l’Inferno vi si scatenasse in tutta la sua malefica natura e potenza. Allora pensavamo che l’avanzamento in questo senso sarebbe dovuto essere talmente graduale da far sembrare effettivamente ragionevole ed adeguata quella previsione.

Tuttavia, la tremenda constatazione del corso estremamente nefasto degli eventi attuali, e soprattutto l’estrema velocità con cui la situazione mondiale, in tutti i suoi possibili aspetti, sta disastrosamente precipitando, non può che costringerci a cercare di rivedere quello che ci era parso un pronostico certo. Nelle condizioni attuali, è infatti del tutto impensabile che ci possa volere ancora un secolo e mezzo circa perché si possa arrivare al limite estremo della caduta catastrofica dell’Umanità attuale, ossia prima che le numerose profezie finali, in special modo quella apocalittica, possano effettivamente compiersi. Per come ci appare la situazione generale odierna, e per come si prospetta quella futura, verosimilmente non possono mancare ancora che pochi anni agli esiti appena accennati. Andiamo quindi ad esporre quella che riteniamo una doverosa rettifica della nostra precedente analisi.

Si tratta essenzialmente di individuare, sempre a partire dal 1514, un periodo più breve di quello di 648 anni, che però si conformi ancora rigorosamente con la struttura ritmica dei cicli umani, e la soluzione al problema è decisamente più semplice di quanto si possa supporre. Infatti, per le chiare ragioni che esporremo, invece che ad un periodo di riferimento di 6480 anni, abbiamo più che ragionevolmente pensato ad uno di 5400. Tale periodo costituisce la principale unità di misura esatta del grande ciclo di 64800 anni, in quanto si ottiene dalla sua più che naturale suddivisione in base al fondamentale numero dodici, essendo 64800 : 12 = 5400 anni. Dunque, se pensiamo il Manvantara come un grande anno cosmico, allora stiamo parlando proprio di quello che si dovrebbe considerare come il suo preciso mese cosmico.

Ora, anche a questa estensione temporale ovviamente si applica il metodo di ulteriore suddivisione quaternaria che abbiamo già applicato in precedenza, quindi anche in questo caso è il suo ultimo e più breve sottoperiodo che dobbiamo considerare, ossia quello pari nuovamente alla sua decima parte, cioè a 540 anni, periodo analogo a quello dell’Età oscura dell’Età oscura, della durata di 648 anni, come si è visto.

Tale speciale periodo di 540 anni era già noto a René Guénon, il quale effettivamente lo cita diverse volte, affermando che, rispetto al ciclo cosmico della precessione degli equinozi, che ricordiamo essere di 25920 anni, se un periodo di 2160 anni è da considerare alla stregua di un «mese cosmico», quello di 540 non può che essere inteso come una «settimana cosmica». Inoltre esso rappresenta in scala maggiore la struttura del periodo giubilare di 50 anni; infatti, così come in questo caso si ha (7 x 7) + 1 = 49 + 1 = 50 anni, allo stesso modo abbiamo che (77 x 7) + 1 = 539 + 1 = 540 anni.

Per evitare eventuali confusioni, precisiamo che solo quando ci riferiamo alla precessione, si può appunto parlare di mese cosmico inteso quale periodo di 2160 anni; poiché, quando invece ci riferiamo all’intero ciclo del Manvantara, per mese cosmico, che sarebbe più opportuno definire «grande mese cosmico», in modo da distinguerlo dall’altro, si deve intendere il periodo di 5400 anni. Tuttavia, per distinguerli ancor meglio, se consideriamo il ciclo precessionale come un «anno precessionale», allora il periodo di 2160 anni si potrebbe appropriatamente chiamare «mese precessionale», mentre quello di 540 anni «settimana precessionale».

Aggiungiamo inoltre che il numero 540 è l’esatto medio aritmetico tra 648 ed un altro numero ciclico fondamentale: 432, e questi sono tutti multipli del sacro 108; infatti, così come 648 = 108 x 6, e 432 = 108 x 4, si ha che 540 = 108 x 5.

Resterebbe solo un ultimo quesito circa il modo in cui possa conciliarsi questo nostro attuale riferimento alla decima parte del grande mese cosmico di 5400 anni col fatto che eravamo invece partiti dalla considerazione della decima parte dell’Età oscura di 6480 anni. Ebbene tale difficoltà risulta essere solo apparente per due ragioni. Nel modo più semplice, basta osservare che così come, nel Manvantara di 64800 anni, il suo grande mese cosmico è di 5400 anni, allo stesso modo, nel Kali-Yuga di 6480 anni, possiamo considerare il suo mese di 540 anni. In secondo luogo, la connessione appare ancor più precisa nel momento in cui ci si ricorda che ogni Yuga o Età del Manvantara è costituita da un esteso periodo centrale, il suo effettivo corpo temporale, e da due crepuscoli (Sandhya), uno iniziale che lo precede, la sua aurora, ed uno finale che lo segue fino al suo termine. Ciascuno dei due crepuscoli dura ugualmente un dodicesimo dell’intero Yuga, mentre i restanti dieci dodicesimi costituiscono la sua parte principale; per cui, come appena visto, essendo pari ad esattamente 540 anni la dodicesima parte dell’Età oscura, ossia appunto il suo mese, la sua durata complessiva andrebbe calcolata giustamente come: 540 + (540 x 10) + 540 = 5400 + 1080 = 6480 anni. Pertanto il nostro ricorso al grande mese cosmico di 5400 anni ed alla sua decima parte di 540 risulta perfettamente adeguato alla precisa struttura temporale dell’Età oscura, e ne consegue chiaramente, quindi, che l’ultimo periodo considerato, quello appunto di 540 anni, costituisce effettivamente quello che in maniera davvero appropriata potremmo definire come il «Tramonto dell’Età oscura», che in pratica è il tramonto dello stesso Manvantara. E questa denominazione è particolarmente significativa, in quanto, se da un lato esprime nettamente l’idea del periodo più tenebroso dell’Età nera, dall’altro indica parallelamente che questa stessa fase compie il suo definitivo esaurimento, il che ovviamente comporta un suo evidente aspetto positivo. Infatti, se da un lato l’Età nera è l’età della dissoluzione per eccellenza, dall’altro è anche l’età in cui l’oscurità consuma e dissolve se stessa.

Ricapitolando, stante che 25920 : 48 = 6480 : 12 = 5400 : 10 = 2160 : 4 = 540 anni, poiché in tal modo questo periodo risulta essere da un lato la settimana cosmica del ciclo precessionale, o settimana precessionale, come s’è pure detto, e dall’altro il mese cosmico dell’Età oscura, ed equivalente al suo tramonto, la sua notevole versatilità ne fa un’unità di misura praticamente perfetta per i nostri scopi. E siccome appunto esso è particolarmente legato al sette e al dodici, e questi sono i due numeri simbolici fondamentali dell’Apocalisse di Giovanni, allora non avremmo potuto considerare un periodo più adatto per indagare la fase finale dei Tempi Ultimi.

Da un altro punto di vista ancora, essendo come s’è detto questo periodo di 540 anni analogo al periodo giubilare di 50, tale carattere giubilare appartiene in qualche modo anche al primo, anzi, probabilmente in maniera decisamente maggiore in questo caso, giacché è proprio al compimento dell’ultima settimana cosmica che si realizzerà la cessazione definitiva dell’Età oscura, la Fine dei Tempi, e soprattutto il ritorno di Cristo, la discesa della Gerusalemme Celeste, ed il grande rinnovamento cosmico e spirituale atteso. Pertanto, tale periodo conclusivo segnerà realmente, oltre che del Cristianesimo, il vero ed autentico Giubileo del Cosmo e dell’Umanità.

Assodato tutto questo, non possiamo che dedurre che la data del 1514 risulterà essere il punto di partenza di questo tramonto del Manvantara, e non l’inizio esatto del Kali-Yuga del Kali-Yuga, e che quindi quest’ultimo debba essere considerato anteriore di 108 anni rispetto a quella stessa data, ossia nel 1404, essendo ovviamente 648 ‒ 540 = 108.

Questa conclusione di fatto equivale non solo a correggere le nostre precedenti conclusioni, ma anche la stessa interpretazione cronologica del Barmont circa la data del 1514, ma questo è abbastanza irrilevante, sia perché lui si è sbagliato relativamente di poco, e sia perché, soprattutto, il significato sostanziale di quell’evento è pressoché identico a quello precedentemente assunto.

Infatti, ammesso che quest’ultimo periodo di 540 anni non sia esattamente quello che avevamo individuato a suo tempo, ossia quello di 648 anni, è tuttavia indiscutibile che, se si prende come riferimento la definitiva conclusione del Manvantara, questi ultimi 540 anni sono in ogni caso effettivamente la parte più tenebrosa dell’Età oscura dell’Età oscura, perché infatti essi devono in ogni caso essere considerati all’interno del lasso temporale degli ultimi 648 anni. Sia in termini di durata che di significato, non vi è quindi grande differenza tra l’Età oscura dell’Età oscura ed il periodo del suo tramonto.

Dunque è precisamente sulla base di tutte queste considerazioni che andremo ora a rettificare opportunamente le nostre conclusioni del 2012. Quindi, tenuta sempre per ferma la data fatidica del 1514, il nostro nuovo calcolo sarà necessariamente: 1514 + 540 = 2054, che infatti ci pare una data di gran lunga più ragionevole per la probabile conclusione del grande ciclo storico attuale. In prima battuta, infatti, possiamo subito osservare che a partire dall’anno in cui abbiamo effettivamente iniziato a scrivere il presente articolo, il 2021 ormai terminato, molto significativamente mancherebbero solo 33 anni esatti al termine del ciclo, cosa che potrebbe avere delle significative implicazioni.

Però ci siamo accorti che esiste un altro calcolo abbastanza stupefacente che porta alla stessa conclusione, e che ancora una volta dipende da osservazioni sulle cronache recenti. Infatti, il pipistrello dell’incisione di Dürer, che generalmente rappresenta Satana, e qui probabilmente anche l’Anticristo, non può che richiamare immediatamente il famigerato pipistrello di Wuhan, quindi l’anno dello scoppio della pandemia mondiale covid 19, il 2020. Inoltre, la cometa rappresentata in alto potrebbe indicare proprio quella scoperta sempre nel 2020, denominata Neowise. Pertanto, sommando alla cifra dell’infausto anno del pipistrello il valore costante del quadrato magico di Giove, rappresentato nella stessa opera, abbiamo: 2020 + 34 = 2054 nuovamente. Detto quadrato magico è già associato alla cronologia dei Tempi finali, in quanto include la data fatale 1514, per cui ora non dovrebbe affatto stupire che il suo sigillo, il 34, compaia nel nostro nuovo calcolo, anche perché esso è riconducibile al sacro ed apocalittico numero sette in quanto ovviamente 3 + 4 = 7. Bisogna inoltre sottolineare che tale diagramma si basa sul numero 16, in quanto è appunto composto dai primi 16 numeri, e questo già anticamente, presso i Pitagorici, era simbolo di giustizia in quanto esprimeva l’unico quadrato in assoluto il cui perimetro equivalesse numericamente alla propria area, giacché tale è il caso del quadrato avente 4 per misura del proprio lato. Dunque questo diagramma numerico esoterico riferito a Giove esprime precisamente la Giustizia divina che alla Fine dei Tempi rettificherà definitivamente tutto il disordine, l’ingiustizia e lo squilibrio propri della fase conclusiva dell’Età oscura. L’evidente vantaggio di questo secondo calcolo cronologico, dunque, è che la sua deduzione si basa unicamente sugli elementi presenti all’interno dell’opera, senza che sia in alcun modo necessario ricorrere a dati o nozioni esterne.

Inoltre, ricordando che l’anno ufficiale 1514 corrisponde all’anno effettivo 1512, arriviamo alla conclusione che la durata reale dell’Era cristiana non dovrebbe essere più considerata pari all’intero mese cosmico di 2160 anni, ma ad un periodo di 1512 + 540 = 2052 anni. Tale periodo differisce di esattamente 108 anni rispetto al mese cosmico, infatti 2160 ‒ 108 = 2052 anni, il che ci dice che Gesù Cristo deve essere nato nell’anno 109 del mese cosmico precessionale attuale, l’ultimo. La qualcosa presenta una certa significativa analogia con la stessa struttura interna del numero 2052, infatti 2052 = 108 x 19, poiché 109 e 19 hanno una certa struttura in comune, essendo (18 x 6) + 1 = 109 e 18 + 1 = 19, ma soprattutto perché 109 e 19 sono cifre chiaramente costituite entrambe da 1 e 9, che sommati danno 10, ulteriormente riducibile a 1. Simbolicamente tale circostanza non può che significare che la ciclicità espressa dal numero 108, o più in generale dal 9, per mezzo di 109 e 19 viene ricondotta all’Unità principiale, ossia che il grande ciclo temporale dell’attuale Umanità viene ricondotto all’Unità dell’Eternità, atto manifestato precisamente dall’evento del ritorno di Cristo alla Fine dei Tempi.

Questi, dunque, sono i risultati ai quali siamo pervenuti nel corso della nostra analisi attuale, ma, esattamente come essi sono dovuti ad un lavoro di revisione su quelli precedenti, non mancheremmo eventualmente di rivederli nuovamente qualora nuovi dati, nuove prospettive o nuove riflessioni di una certa importanza ci inducessero a farlo.

Ad ogni modo, i discorsi appena conclusi, come indicato in premessa, costituiscono solo la prima metà degli argomenti a sostegno della nostra tesi, giacché tutti gli altri, di natura completamente diversa, andranno a costituire l’altra metà in un secondo articolo. Infatti, gli argomenti che abbiamo presentato qui costituiscono solo una conferma del fatto che la Fine dei Tempi sia ormai vicinissima, non la sua principale dimostrazione, perché questa dovrebbe prodursi in base a ragionamenti ancor più stringenti ed importanti.

Concludiamo sottolineando che questa nostra indagine intende essere esclusivamente un significativo contributo alla consapevolezza individuale e collettiva del nostro stare effettivamente vivendo nei Tempi ultimi, con tutto ciò che spiritualmente ed esistenzialmente ciò significa. La riflessione sul rapido approssimarsi della Fine dei Tempi, oltre che sull’estrema fugacità dell’epoca attuale, è certamente una riflessione sulla caducità della nostra esistenza individuale. È nostra ferma convinzione, infatti, che sia assolutamente necessario, se non indispensabile, che l’uomo contemporaneo cessi al più presto di restare prigioniero o vittima di qualunque residua illusione di progresso falsamente inculcatagli dalla cultura dominante, e che egli si renda invece profondamente cosciente di essere il protagonista in prima persona dell’attuale Tempo apocalittico, e che quindi il modo in cui egli vede se stesso, Dio, la Storia e la vita debba necessariamente mutare radicalmente per adeguarsi al più presto a tale realtà e a tale verità. Affinché egli, se non l’ha ancora fatto, trasformi al più presto la propria anima e la propria esistenza per renderla massimamente conforme alla propria essenza divina e a Dio stesso.

 

Copyright © 2021-2022 Giovanni Tateo Milano, tutti i diritti riservati all’autore.

La scalata verso Dio per la parete nord

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Hervé Clerc, A Dio per la parete nord, Adelphi, 2018, pp. 286, € 15,00.

Hervé Clerc, l’autore del libro di cui ci occupiamo, è, almeno ai nostri occhi, un giornalista davvero fuori del comune. Sì, perché quest’uomo, non solo ha studiato, con evidente profitto, la filosofia e le dottrine metafisiche occidentali ed orientali, ma è egli stesso un vero e proprio ricercatore spirituale, come il suo stesso testo dimostra. Qualcuno capace di offrirci quella che è sicuramente una delle migliori introduzioni o sintesi immaginabili sulla dottrina metafisica induista della “non-dualità” della realtà, corrispondente a quella della “unicità dell’esistenza” secondo l’Islam mistico, od esoterico, che dir si voglia, altrimenti noto come Sufismo.

Per chi non avesse ancora letto il libro, o semplicemente non avesse la minima idea di questi argomenti, diciamo innanzitutto che tali dottrine, appunto sostanzialmente identiche nel loro significato, affermano che tutto ciò che noi intendiamo con i termini “realtà”, “essere” o “esistenza”, in verità, non sono altro che Dio, perché Lui è in assoluto l’unica realtà, l’unico essere, l’unica esistenza, fonte assolutamente unica, incondizionata ed infinita di tutti gli esseri, gli enti od esistenti. Il che ovviamente implica pure che assolutamente nessuno di essi possieda, o possa mai possedere, una propria realtà, od un proprio essere, e quindi nemmeno una vita od un’esistenza propria, al di fuori di Dio stesso.

Lo scritto però, non si limita affatto ad una brillante ed efficacissima esposizione di questa dottrina, ma costituisce un vero e proprio caloroso e convinto invito alla ricerca di un Dio così concepito.

Un Dio, com’è evidente, completamente, incommensurabilmente, anzi abissalmente, è proprio il caso di dirlo, diverso dal Dio che le religioni comunemente conosciute e vissute ci hanno sempre prospettato. Certo, non che l’uno sia il vero Dio e l’altro il falso: si tratta “soltanto” di due aspetti diversi, o meglio due differenti prospettive, dell’unica Divinità.

Le religioni, da sempre, ci mettono in contatto col “Dio personale”, che è la divinità solamente del bene, della giustizia soltanto, mentre l’altro, quello appunto indicato da Clerc, è quello che si pone in una condizione di assoluta neutralità, corrispondente alla sua pura assolutezza, che trascende necessariamente non solo il bene ed il male, ma qualunque qualità od attributo divino od ontologico possibile ed immaginabile. Il primo è il Dio sul quale molte precise affermazioni teologiche possono e debbono essere formulate, e che può essere rappresentato anche simbolicamente ed artisticamente, mentre il secondo è assolutamente inconoscibile, misterioso, imperscrutabile, impensabile, inimmaginabile, irrappresentabile ed indicibile.

Il primo, quindi, è, tutto sommato, qualcosa a cui la mente umana può in qualche modo avvicinarsi, mentre il secondo è quasi sempre paragonato ad un puro ed inconcepibile nulla, ad una tenebra impenetrabile, infatti è l’oggetto principe della cosiddetta “teologia negativa”, ossia di quella teologia che esprime la Divinità esclusivamente negando che ad Essa possa riferirsi alcunché di determinato, limitato, finito o distinto.

Ora, se quest’opera è davvero straordinaria ed assai preziosa per la notevolissima capacità del suo autore di esporre dei concetti così complessi e profondi con un linguaggio sempre semplicissimo, chiaro, agile, scorrevole ed elegante, tuttavia essa, inevitabilmente, non può che porre tutta una serie di problemi, che però restano insoluti. Si tratta precisamente delle dirette implicazioni delle stesse affermazioni esposte, o dei dubbi che da esse possono facilmente sorgere. Ne esponiamo una serie, partendo sia dallo specifico punto di vista cristiano, e sia da quello più genericamente filosofico.

Se Dio è tutti gli esseri senz’alcuna eccezione, allora Egli è anche Satana o questi è anche Dio? O Satana è il lato oscuro di Dio? Analogamente, Dio è l’uomo o l’uomo è Dio? L’universo è davvero un’illusione? Lo è davvero l’io? La religione è inutile forse? Se Dio è l’intera realtà, allora tutto è bene, e quindi anche il male? Esiste davvero il male? Se non c’è differenza tra bene e male, allora come orientarsi nell’esistenza? A quale etica o morale si dovrebbe far ricorso? Se inoltre Dio è l’unico agente, l’autore unico di tutte le azioni compiute dagli esseri viventi, uomini in primis, allora esiste davvero la libertà? Esiste davvero la responsabilità esistenziale o morale? Esiste forse, invece, la predestinazione, il destino?

Certo, ci rendiamo ben conto che tutte queste questioni non sono davvero contestabili all’autore in particolare, giacché egli, ovviamente, non ha affatto preteso di aver creato le dottrine originarie che espone, limitandosi invece a farsene interprete ed ambasciatore spirituale. Sono tutte questioni che semmai andrebbero indirizzate a quelle stesse dottrine, o meglio alle Tradizioni sacre che le hanno generate e vissute, le quali, infatti, non hanno mai mancato di occuparsene, risolvendole con ricchezza di argomentazione.

Allo stesso modo, siamo del tutto consapevoli che la brevità stessa del testo non poteva affatto consentire al suo autore nemmeno un accenno a tutte queste difficoltà; tuttavia esse restano, e sicuramente il lettore meno esperto non potrà che incapparci.

Dal nostro punto di vista, quindi, un libro del genere, per quanto davvero meraviglioso, e decisamente prezioso, risulta essere anche terribilmente insidioso, pericoloso. Esso, infatti, rischia seriamente di far perdere il lettore che vi si concentri, e non semplicemente nel senso di confonderne il pensiero, ma di disorientarlo totalmente nella sua stessa esistenza concreta. Siamo troppo pessimisti o troppo severi? Crediamo di no, anche per le seguenti ragioni ulteriori. Premettiamo, però, che conosciamo benissimo tali dottrine in oggetto, e da tempo ne condividiamo il contenuto, quindi non siamo affatto in disaccordo né con esse, né con Clerc.

Il problema generale che pone l’esistenza stessa di un libro come questo è un altro, ossia che il suo autore vi afferma la possibilità che, di fronte al diffuso nichilismo, ateismo e materialismo dell’Umanità attuale, ed in alternativa alle religioni tradizionali, considerate ormai al tramonto, si debba abbracciare una spiritualità incentrata su questo Dio “della parete nord”. Non a caso, egli sottolinea che oggi le chiese sono sempre più deserte, mentre i centri di meditazione si moltiplicano, e sono sempre più frequentati. All’orizzonte, dietro l’avanzare, l’estendersi del deserto della fede, lui vede approssimarsi l’alba di una nuova civiltà spirituale costruita su questo Dio simile ad un puro nulla. L’autore, però, dimentica, o tralascia, che i grandi mistici, o iniziati, o maestri spirituali, che lui stesso cita additandoli giustamente come esempi luminosissimi, per poter raggiungere le proprie vette metafisiche, non avevano assolutamente mai potuto far a meno di vivere profondamente la propria religione, e l’ipotesi che invece ciò sia tranquillamente possibile non ci sembra molto facile da dimostrare, e nemmeno tanto prudente.

A parte il fatto che noi, basandoci soprattutto sull’Apocalisse di Giovanni, ossia sulla Tradizione Sacra, crediamo che purtroppo, prima dell’avvento di una nuova Età dell’Oro, sarà tutt’altro a riempire quasi totalmente quel deserto, l’altro punto critico è il seguente.

Clerc pensa ad una nuova e diversa spiritualità di massa, e che quindi il suo messaggio debba essere rivolto indistintamente a chiunque. Egli, infatti, non si rivolge esclusivamente a coloro i quali nutrono un’autentica vocazione filosofica o mistica, e nemmeno semplicemente religiosa, ma a chiunque abbia la ventura di leggere il suo libro. Preparato o no, idoneo o no. È Clerc stesso a volersi fare da ponte tra quel suo Dio simile ad un completo nulla, e nel contempo misteriosamente onnipresente ed onnipervasivo, ed un lettore che invece Lo ignora totalmente, anzi nemmeno potrebbe immaginarseLo. Ad un lettore, insistiamo, eventualmente del tutto impreparato ed inadatto a raccogliere il suo messaggio e la sua esortazione.

Ebbene, pur essendo concordi con lui sul fatto che l’essere umano, in quanto intelligente, è per sua natura “filosofo”, e che quindi, in un modo o nell’altro, cerca sempre il significato della vita, e, magari inconsapevolmente, anche Dio, la verità, tuttavia, è che la ricerca metafisica di cui l’autore, così appassionatamente e competentemente, parla, all’interno delle civiltà spirituali in cui essa è sorta e si è sviluppata, con buone ragioni, non è mai stata effettivamente consentita a chiunque indistintamente. La dottrina retrostante è invece sempre stata riservata ad un esiguo numero di individui animati dalla giusta vocazione, e provvisti delle qualificazioni interiori necessarie.

In altre parole, questa ricerca di Dio possiede un carattere eminentemente esoterico, non essoterico o religioso, per cui il suo testo, in pratica, non costituisce altro che quella che, nel linguaggio tecnico dell’esoterismo stesso, non può che definirsi come una vera e propria “iniziazione virtuale” o teorica.

Stando così le cose, perlomeno nelle condizioni in cui versa l’Umanità attuale, tale ricerca spirituale, che appunto non sbaglieremmo nel definire “esoterica”, non può affatto essere proposta o destinata all’individuo comune, il quale può smarrirsi facilmente già nel solo approccio teorico ad essa.

Esiste necessariamente una notevole differenza tra teologia ed autentica metafisica, così come, analogamente, tra religione e via iniziatica. È assolutamente scorretto ed inopportuno, dunque, proporre una via iniziatica come valido sostituto della religione. Anche se le due, ma solo nei contesti sacri che le prevedono entrambe senza che ciò costituisca alcuno strappo all’ortodossia od un sacrilegio vero e proprio, di norma non debbono essere nettamente separate, tuttavia i loro rispettivi e specifici ambiti devono essere sempre e comunque rispettati, e mai confusi tra loro.

Persino nell’antica Civiltà greca, il cui massimo precetto spirituale era proprio quello apollineo del “conosci te stesso”, che appunto sintetizzava precisamente la stessa ricerca del Divino in questione, e che teoricamente era indirizzato a tutti, era tuttavia previsto un rigido regime di segretezza per il contenuto dottrinale dei Misteri, ossia della sapienza di matrice divina, così come una rigorosa selezione dei candidati al percorso nella Via iniziatica vera e propria.

Non ne facciamo, però, una questione di esclusivismo o di elitarismo, ma consideriamo in maniera obbiettiva l’errore di voler indirizzare chiunque verso un sentiero spirituale che, per sua intrinseca natura, non può che essere compreso solamente da una speciale minoranza di individui, vissuto realmente da una minoranza ancora più stretta, ed infine effettivamente realizzato nei suoi ultimi esiti da un’ulteriore minoranza ancor più esigua.

L’uomo moderno, ormai, spesso riesce a stento a trovarsi semplicemente “in grazia di Dio”, figurarsi, quindi, se potrebbe, addirittura a maggioranza, riuscire a raggiungere quella ineffabile meta divina variamente denominata “illuminazione”, “identità suprema” o “liberazione”.

Quello che noi consideriamo un reale pericolo in operazioni come quella di Clerc, in definitiva, è che un messaggio ed un invito come i suoi, in menti inadatte a riceverli, possano produrre, per una drammatica eterogenesi dei fini, indesiderabili effetti contrari, persino peggiori degli stessi nichilismo, ateismo e materialismo. Mai come nella Modernità, infatti, è sempre stata in agguato l’idea sovversiva, titanica, faustiana, che l’Uomo sia o possa diventare Dio. Molte sono le forme storiche di questa concezione, la meno pericolosa delle quali è il superomismo. Esistono però anche degli altri suoi nomi precisi, ma lasciamo quindi al lettore avveduto le denominazioni che rinviano a posizioni di gran lunga, eufemisticamente, meno innocue.

In conclusione, però, al netto delle nostre dovute osservazioni critiche su alcuni aspetti del testo, all’Adelphi va senz’altro il nostro sentito plauso per questa sua ottima pubblicazione, e l’augurio che essa, come d’altronde ha già fatto, in futuro moltiplichi sempre più straordinarie iniziative editoriali del genere.

Giovanni Tateo Milano

 

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Il Santo Graal. Mito e realtà

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Nuccio D’Anna, Il Santo Graal. Mito e realtà, Archè – Edizioni PiZeta, Milano – San Donato (MI), 2009.

Che quello del Santo Graal sia il mistero più grande dell’Occidente è fin troppo evidente e risaputo, come pure è altrettanto palese che questo enigma sia stato, suo malgrado, troppo spesso oggetto di speculazioni di vario genere, che con la sua autentica essenza avevano assai poco o nulla in comune. Attualmente, invece e per nostra fortuna, abbiamo a disposizione quest’opera di Nuccio D’Anna, e francamente non pensiamo possa esservi un miglior studio sintetico sul tema; senza contare che, proprio sulla base di questo, è senz’altro possibile approfondire adeguatamente tutta una serie di aspetti assai significativi ed estremamente interessanti che esso pone in luce. Qui non solo vengono analizzati compiutamente i motivi principali dei romanzi del Graal di celebri autori quali Chrétien de Troyes, Wolfram von Eschenbach, Albrecht von Scharfenberg, Robert de Boron, etc., ma si riesce magistralmente a rivelarne l’autentica matrice simbolica e misterica. Il merito fondamentale di D’Anna è di ricostruire, con ricchezza di precise ed inoppugnabili argomentazioni, l’esatto contesto storico, culturale, religioso e soprattutto misterico all’interno del quale la realtà autentica del Graal era centrale. Egli dimostra finalmente, e più che brillantemente, come sia il suo “mito” che la sua realtà effettiva appartengono interamente al Cristianesimo, con buona pace di tutti quegli esegeti che, per insufficiente cognizione o per colpevole partito preso, hanno inteso attribuirla alle più svariate tradizioni religiose od esoteriche, sia viventi che estinte. Il Graal non appartiene affatto né all’Islam, né ad alcuna tradizione orientale, e nemmeno a qualcun’altra pre-cristiana e pagana. La certezza che si trae dall’indagine rigorosa dell’autore, infatti, è che la sua tradizione misterica costituisce la quintessenza stessa dell’esoterismo cristiano, la cui vena non si è affatto esaurita nemmeno nei tempi odierni, nella fase terminale dell’Età Oscura; basti pensare all’emersione nel XX° secolo degli ordini iniziatici regolari della Stella Interiore e dei Cavalieri del Divino Paracleto, con i quali lo stesso René Guénon collaborò.

Se poi si intendesse considerare le relazioni tra la tradizione del Graal ed altre correnti esoteriche non-cristiane, quello che emerge con sufficiente chiarezza è che tali collegamenti si configurarono essenzialmente in due modi: 1) come l’assimilazione da parte dell’esoterismo cristiano di correnti esoteriche appartenenti a tradizioni differenti, ma sul punto di esaurirsi; 2) come normali comunicazioni con realtà iniziatiche presenti in altre tradizioni viventi, nel quadro del più vasto coordinamento delle realtà sacre vincolate all’unica Tradizione Universale Primordiale.

L’indagine parte, quindi, dalla rievocazione del Cristianesimo celtico, ricordando come, principalmente per mezzo della conversione dell’Irlanda operata da San Patrizio, le sue antiche tradizioni iniziatiche druidiche, prima che potessero spegnersi del tutto, fossero state provvidenzialmente “salvate” ed integrate nella Tradizione di Cristo, con particolare riferimento alle correnti contemplative di tipo mistico. Ciò, comunque, ovviamente non significa affatto, lo ribadiamo, che il mistero del Graal avesse un’origine propriamente celtica, ma solo che alcune correnti misteriche originariamente celtiche concorsero ad alimentarne, dopo essere state opportunamente riconsacrate a Cristo, la corrente esoterica ed iniziatica. Un processo del tutto simile si ebbe, ad esempio, nel caso della Massoneria, poiché la sua costituzione si dovette all’assimilazione cristiana delle iniziazioni un tempo appartenenti ai Collegia Fabrorum dell’estinta tradizione romana. Se poi si considera l’integrazione di alcune correnti misteriche ebraiche nell’esoterismo del Graal, anche se D’Anna vi ha solo accennato, riteniamo che l’idea e la realtà di esso quale contenitore e veicolo sacro della Sapienza o Verità Divina sia del tutto assimilabile a quella dell’Arca dell’Alleanza dell’antico Giudaismo. Il Graal, quindi, dev’essere considerato a tutti gli effetti come la nuova Arca dell’Alleanza metafisica tra l’uomo e Dio, resa possibile dalla vita, morte e resurrezione di Cristo, nonché dal suo prossimo ritorno alla fine dei tempi, quale Re della Gerusalemme Celeste e Restauratore del Paradiso perduto, fondatore della nuova Età dell’Oro. In ciò consiste, specificamente, l’aspetto “apocalittico” dell’universo spirituale del Graal.

In effetti, l’autore mostra l’essenza profondamente cristiana della tradizione esoterica incentrata su di esso, sia per quanto riguarda la sua realtà puramente spirituale, e sia per quanto concerne le sue liturgie e i riti misterici, i suoi simboli, il linguaggio espressivo: tutti elementi facilmente riconducibili al retroterra costituito dai testi sacri canonici e dalla teologia del Cristianesimo, specie quella mistica. Da tutto ciò risulta infatti stupefacente il modo in cui, come accennavamo in precedenza, taluni abbiano fatto di tutto per disconoscere tale verità, assolutamente lampante e cristallina per chi, invece, non è affatto offuscato da pregiudizi di sorta, e possegga un adeguato discernimento di tali realtà sacre – come sembra appunto essere il caso dello stesso D’Anna, il quale fa puntualmente piazza pulita di qualunque interpretazione inadeguata o addirittura tendenziosa di esse. Le nebbie che avvolgevano l’enigma si diradano, le ombre si dileguano, e le tenebre cedono il posto alla luce, giacché il testo non mancherà certamente di strabiliare il lettore che ancora non sospettava od immaginava l’esistenza di alcuni grandi misteri e prodigi della Civiltà spirituale di Cristo. Ecco infatti le più importanti scoperte che il testo ci consente di fare: innanzitutto, la natura stessa del Santo Graal quale Verità ed Illuminazione Divina, come Teofania interiore, come Qualità stessa di Dio, che si manifesta nell’esperienza mistica del Suo Amore e della Sua Conoscenza – appunto Suoi attributi primarî -; il Re Pescatore è lo stesso Cristo, il primo e vero pescatore di uomini secondo i Vangeli; il leggendario Prete Gianni non è altri che San Giovanni, immortale sacerdote e re – come Melchisedek – del Regno del Paradiso terrestre, sommo patrono dell’esoterismo cristiano; i Templari sono, ovviamente, gli autentici Cavalieri del Graal. Per il futuro lettore, la scoperta nella scoperta sarà inoltre, se egli avrà avuto reminiscenza dei Vangeli e dell’Apocalisse, che tutto ciò lo si riconosce chiaramente e naturalmente vero, e si stupirà parecchio, quindi, della fitta coltre di oscurità che sembrava nascondere del tutto questa evidenza massima. Avrà la sensazione di risvegliarsi da un profondo sonno, nel quale solo sognava che vi fosse un’altra inconoscibile verità seppellita da qualche parte, chissà dove.

Ciò dimostra, ancora una volta, lo stato penoso in cui versa la coscienza occidentale, così drammaticamente incapace di essere consapevole della propria stessa tradizione sacra, di riconoscerla persino nelle più grandi meraviglie che essa ha prodotto nei più fecondi secoli della sua storia. Una coscienza quasi totalmente ignara degli antichi segreti della propria memoria dimenticata, della profondità reale della propria identità spirituale, quasi interamente perduta. Probabilmente, come avrebbe sostenuto Guénon, solo una forte suggestione, anzi, un vero e proprio potente sortilegio ha potuto offuscare ed ottundere così a lungo e così intensamente le anime dell’Occidente, impedendo loro di vedere, seppur indirettamente nella sua lunga scia culturale, lo splendore del Graal.

Giovanni Tateo Milano

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Leggi anche la recensione di: Jean Reyor, Studi sull’esoterismo cristiano

La Fede e l’intuizione del Logos cosmico

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Comunemente si ritiene che la fede in Dio sia un fatto che appartiene esclusivamente alla sfera religiosa, intesa come un dominio specifico all’interno della più vasta realtà universale, o, secondo un’idea più ristretta, della vita mentale dell’essere umano. La fede sarebbe solo un sentimento, più o meno indefinibile, e comunque difficilmente giustificabile, che non avrebbe alcun legame immediato con la nostra comprensione della realtà, non avendo nulla in comune con la razionalità, e quindi nemmeno con un’intelligente interazione col mondo, la quale dovrebbe invece dipendere dalla sola conoscenza delle sue dinamiche concrete. In base a questo assunto, il credo in un’entità superiore chiamata «Dio» sarebbe dunque un’opzione che si può liberamente scegliere oppure no, senza che ciò possa avere alcuna incidenza od influenza sul rapporto effettivo che abbiamo col mondo di cui siamo parte, con la nostra ordinaria e continua esperienza di esso. In verità, tutto ciò potrebbe sembrare vero ed evidente unicamente a tutti coloro i quali, malgrado le apparenze, e nonostante il loro pragmatismo, hanno un contatto assai superficiale con il mondo, e soprattutto con se stessi. A quella concezione estremamente riduttiva della fede si contrappone innanzitutto il caposaldo indispensabile di qualunque autentica teologia: Dio è l’Intelligenza Suprema, l’Essere la cui Sapienza ha creato l’universo e lo governa costantemente. Intendiamo quindi dimostrare come questi dogmi siano del tutto connaturati alla stessa intelligenza umana, ossia come inconsciamente essi siano la parte più essenziale della nostra presenza cosciente nell’universo, e come, in questo senso, essi siano inconsapevolmente fondamentali anche per coloro i quali si professano atei. Procederemo applicando a questa questione il precetto apollineo del «conosci te stesso». Ebbene, se vi poniamo la dovuta attenzione, ci accorgiamo che ogni nostro pensiero, ogni nostro singolo gesto o atto quotidiano dipende essenzialmente dalla nostra fede assoluta nel fatto che l’intero Cosmo sia una realtà essenzialmente unitaria, retta da leggi naturali inflessibili ed eterne. Noi tutti, infatti, crediamo in maniera assoluta nella legge di gravità, nella continuità ed irreversibilità del tempo, nella stabilità dello spazio, nelle invariabili dinamiche energetiche, nell’ordinamento ferreo delle orbite celesti, nella legge che presiede alla luce ed all’oscurità, nell’ignota intelligenza che plasma tutte le forme di vita. Crediamo assolutamente, in definitiva, che nell’intero Universo, nell’intera sua storia, in ogni istante, sia totalmente impossibile che possa mai verificarsi anche un solo evento che sia del tutto contrario alle sue leggi naturali, o che sia del tutto gratuito, ossia privo di una qualche causa specifica prevista e consentita da tali leggi; siamo inoltre assolutamente certi che una qualunque catastrofe, per quanto grande possa essere, non potrebbe mai sconvolgere quelle leggi, e che anzi esse governino anch’essa, limitandone appunto la portata distruttiva ed esaurendone ad un certo punto il corso; e crediamo quindi sia pura pazzia il poter pensare l’esatto contrario di tutto ciò. Crediamo in modo assoluto, in definitiva, che il Cosmo sia sempre e dappertutto il risultato di un’unica logica adamantina, onnipotente e misteriosa. Chiunque, con un’adeguata introspezione, potrebbe in ogni momento verificare tale verità della sua coscienza profonda e darne piena conferma.

A tutti questi spontanei e continui atti di fede abbiamo dato una formulazione esplicita e precisa, ma è evidente che quasi sempre gli individui ne hanno al massimo una percezione vaga e sfocata, un sottofondo costante della loro vita psichica, che solo coloro i quali professano un credo religioso esprimono con una certa chiarezza. Questa fede nell’ordine onnicomprensivo ed immutabile della natura, infatti, è una componente talmente fondamentale della mente umana, un istinto, anzi un’intuizione talmente immediata, e profondamente radicata nella psiche, da restare troppo spesso praticamente inavvertita nel suo essere del tutto scontata nella nostra esistenza. Paradossalmente, appunto, ciò risulta essere un fatto concretamente ignoto a moltissimi di noi, proprio perché costituisce la necessità primaria della nostra vita concreta; infatti, come potremmo mai avere un’esistenza normale e psichicamente sana qualora dubitassimo dell’inalterabilità di tale ordinamento cosmico? In assenza di tale indispensabile convinzione, come potremmo avere alcuna presa sulla realtà? Su cosa potremmo mai contare se davvero pensassimo o solo ipotizzassimo che l’universo fosse, o potesse eventualmente divenire, il luogo dell’arbitrio o addirittura del caos? Dove ciò che vale in un istante possa non valere più in quello successivo? Dove tutto possa avvenire senza una ragione? Senza obbedire ad alcuna legge o logica?

La Fede, dunque, a prescindere dal fatto che sia percepita come tale oppure no, risulta essere l’autentico fondamento della nostra comprensione della realtà, ed il presupposto indispensabile della nostra efficace relazione con essa.

Ad ogni modo, si dovrebbe riconoscere che l’affermazione secondo cui l’ordine cosmico, o specialmente l’intero mondo delle specie viventi, non sarebbe altro che il frutto del caso, non significa assolutamente niente, ed è pertanto del tutto ridicola quale pretesa di spiegazione. Affermare, da ultimo, che tutto nasce dal caso significa semplicemente che si ignora completamente quale sia l’origine reale dell’Universo o della vita. Il “Caso” è semplicemente il nome che convenzionalmente si dà alla propria ignoranza o alla propria incapacità di comprendere la realtà. È assolutamente assurdo che la scienza ufficiale, con la sua dogmatica pretesa di costituire la quintessenza della razionalità, finisca in questo modo per dare di sé la prova esattamente contraria, giacché la “spiegazione” “casuale” – e non causale – del Cosmo è del tutto priva di senso, e quindi assolutamente irrazionale, oltre che perfettamente vuota ed inutile. L’intelligenza umana, per istinto od intuizione – quando infatti non sia ormai divenuta vittima dei sortilegi ideologici del nichilismo, mascherato da modernismo o postmodernismo, fattosi pensiero unico dominante -, rifiuta categoricamente qualunque assurda asserzione circa la presunta assenza di logica e di significato dell’esistenza nella sua interezza, e la respinge sia per la sua stessa immediata consapevolezza di sé in quanto coscienza capace di comprendere sia se stessa che il mondo esterno, e sia perché effettivamente dimostra continuamente a sé stessa che tale logica e tale significato esistono realmente; anche quando, senza scomodare alcuna metafisica o teleologia, ci si fermi alla sola constatazione dell’universale validità della legge di causa ed effetto, o delle leggi dei fenomeni sensibili. È infatti la sua esperienza comune e continuativa a dimostrare immancabilmente all’intelligenza umana la verità dell’oggetto della propria fede o intuizione nell’Intelligenza del Cosmo.

Bisogna inoltre sottolineare anche l’enorme contraddizione secondo cui la scienza moderna, se da un lato nega ufficialmente l’esistenza di un’unica Intelligenza trascendente dell’universo, dall’altra lo indaga di fatto considerandolo come un tutto unitario, una realtà omogenea governata da un’unica logica onnipervadente e conoscibile. Come ha giustamente sottolineato Titus Burckhardt* – basandosi evidentemente sulla metafisica non-dualista dell’Induismo – l’uomo non potrebbe affatto pensare l’Intelligenza Divina del Cosmo, e nemmeno essere effettivamente capace di comprenderlo mediante l’indagine scientifica, qualora l’intelligenza umana e quella divina non fossero effettivamente e profondamente legate tra loro, anzi, se tra di esse non vi fosse una qualche misteriosa unità. In questo senso, è chiaro che, se si considera l’aspetto immanente dell’Intelligenza Divina, essa si manifesta in maniera eminente nella mente umana. Non è questa la sede per affrontare il discorso sulla natura trascendente dell’anima, per cui ci limitiamo a concludere ricordando la tesi rilanciata da Burckhardt sulla presenza nell’uomo del «Testimone», ossia dell’Intelletto Divino, che è l’unica garanzia assoluta della possibilità umana di conoscere la verità del Tutto.

Giovanni Tateo Milano

* Si vedano i due illuminanti saggi: Cosmologia perenne e Scienza non saggia, in Titus Burckhardt, Scienza moderna e saggezza tradizionale, traduzione di Angela Terzani Staude, Borla, Torino, 1968.

Leggi anche: Il Logos trascendente della natura vivente

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Il Logos trascendente della natura vivente

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Ponendoci nella prospettiva di chi intenda dedurre l’esistenza di un’Intelligenza trascendente dell’Universo a partire dall’ordine razionale che in esso è possibile riconoscere, ciò è decisamente più facile da effettuare se ci si riferisce all’osservazione della realtà terrestre, anche attraverso i parametri della scienza moderna e profana. Oltre alle leggi naturali, valide sia per gli enti animati che inanimati, ossia le leggi fisiche generali, è in particolare la realtà vivente che abita il Cosmo – anche se essa pare essere presente solo sulla Terra – a rivelarne nella maniera più eclatante il Logos superiore. Premettendo che una rigorosa logica interna è riscontrabile già nei minerali – i quali, infatti, dimostrano di crescere e svilupparsi sulla base di precise ed evidentissime direttrici matematiche e geometriche -, noi osserviamo che ogni organismo vivente possiede una struttura biologica estremamente intelligente. Nel caso degli ecosistemi, inoltre, è evidente che le varie specie viventi si trovano integrate in maniera ottimale, ad esempio, nei cicli delle catene alimentari; e che ciò fa sì che i singoli gruppi, in condizioni normali, possano sempre sopravvivere malgrado la distinzione tra predatori e prede, o tra parassiti e ospiti; e dovrebbe far riflettere molto che tutto ciò sia dovuto all’insieme complesso delle interazioni tra specie animali e vegetali, e, all’interno delle prime, tra esseri il cui habitat naturale può essere sia l’aria, che la terraferma o l’acqua. Si tratta, in altre parole, di riconoscere che l’ecosistema terrestre dimostrerebbe, se non vi fosse l’interferenza esiziale dell’attività industriale umana, di essere costantemente in uno stato di equilibrio perfetto malgrado questo dipenda essenzialmente dalla conciliazione ottimale di un numero incalcolabile di variabili.

Volendo dunque abbracciare, con un unico sguardo intellettuale, questo complesso e straordinario panorama comprendente milioni di specie viventi di tutti i tipi, che coesistono armonicamente malgrado le loro notevoli diversità ed asimmetrie, nonché i loro istintivi antagonismi, a rigore, non si dovrebbe che pensare che tutti questi esseri viventi, malgrado siano comparsi e scomparsi di volta in volta nelle varie ere della storia biologica terrestre, essi siano stati concepiti simultaneamente da un’unica intelligenza onnisciente, in modo tale che ciascuno di essi, occupando il singolo e specifico posto che gli compete, si inserisca perfettamente all’interno dello sconfinato e multiforme quadro della natura vivente.

È altresì evidente che lo sguardo capace appunto di riconoscere questa verità appartiene unicamente all’intelletto dell’Uomo; per quanto ne sappiamo, infatti, e dal nostro punto di vista tradizionale ne siamo assolutamente certi, eccezion fatta per il Logos cosmico, che in qualche modo è sia immanente che trascendente, nell’Universo non esiste altra forma di intelligenza che quella umana.

Dimostreremo, quindi, la nostra tesi indagando sui limiti strutturali di questa stessa intelligenza rispetto alla conoscenza della stessa biologia umana, e, dato che il metodo assunto, come s’è detto, prevede il ricorso alle logiche della scienza moderna, verificheremo se effettivamente l’intelletto in questione debba identificarsi o meno col cervello umano; giacché, se si intendesse negare la natura divina di tale intelletto, allora non resterebbe che considerarne quella umana, e solo biologicamente intesa, ossia senza far affatto ricorso alle categorie teologiche dell’anima e dello spirito.

Dunque, se da un lato l’intelletto umano è capace di riconoscere negli esseri viventi, nei minerali, o negli insiemi naturali complessi come gli ecosistemi, la presenza imprescindibile di un progetto senza il quale non si avrebbe alcun ordine interno nelle forme considerate, nel contempo si è costretti ad ammettere, seppur tacitamente, l’evidenza assolutamente ineludibile che l’intelligenza che ha concepito quei progetti o programmi è del tutto superiore e trascendente rispetto agli enti configurati e strutturati da essi. Secondo la tesi evoluzionista l’intelligenza sarebbe il prodotto di un’evoluzione casuale degli organismi più complessi, ma è fin troppo evidente che: 1) la loro struttura non ha assolutamente nulla di casuale, ma risponde sempre ad una logica rigorosa; 2) che l’intelligenza in oggetto dovrebbe essere semmai un presupposto indispensabile del loro progetto genetico e non solo un suo esito finale; anzi, bisognerebbe considerare proprio questo come prova irrefutabile di quell’origine intelligente. Essa non può essere affatto solo un prodotto organico senza esserne stata anteriormente la produttrice su un altro piano dell’esistenza. Se davvero è stata la presunta evoluzione a produrre la coscienza e l’intelligenza come noi comunemente le conosciamo, allora come mai tale importantissimo risultato evolutivo non implica anche la necessaria consapevolezza di tale processo e la cognizione precisa e permanente della propria struttura interna? Se l’intelligenza non fosse altro che il cervello, ossia se la sua natura non fosse altro che biologica, come mai esso è del tutto incosciente della stessa biologia del corpo di cui è la parte direttrice? Perché, in base alla comune esperienza, la nostra coscienza pare manifestamente estranea alla realtà organica del corpo in cui essa abita? Con ciò intendiamo più precisamente dire che, malgrado ogni essere vivente sia ciò che è in virtù del proprio codice genetico, che appunto costituisce il programma o progetto della propria architettura biologica, tale essere, oltre a non esserne affatto l’autore, non è nemmeno minimamente consapevole di esso. In effetti, l’uomo stesso non possiede fin dalla nascita la completa conoscenza e consapevolezza del proprio DNA, o la cognizione precisa ed integrale della propria struttura organica, e delle sue varie funzioni; bensì, egli è costretto a studiare e ad indagare la propria biologia, come se il proprio corpo fosse quasi un ente estraneo a se stesso, un oggetto esterno, che, quanto alle sue logiche e dinamiche interne più profonde, gli è praticamente ignoto da sempre. Egli, infatti, non conosce direttamente i propri organi, gli apparati, né le sue ossa, o i suoi vari tessuti biologici, ed ignora completamente tutte le cellule del suo corpo. Prova evidente di ciò è la stessa ricerca medica, giacché è chiaro che se l’uomo conoscesse spontaneamente, completamente e perfettamente il proprio organismo, non avrebbe alcuna necessità di studiarlo per conoscere sia le malattie di cui può soffrire, che le loro relative cure. Nessuno, infatti, può dimostrare che il DNA, umano o di qualunque altra forma di vita, contenga, o abbia mai contenuto, un’informazione genetica tale da consentire a tale forma di possedere autonomamente, ossia senza avere alcun bisogno di effettuare alcuna ricerca scientifica su se stessa, la piena cognizione della propria costituzione ed eredità biologica. Il genoma umano è stato interamente esplorato e mappato, e tutti i suoi geni sono stati precisamente identificati senza che sia mai emerso alcun dato del tipo considerato; anzi, forse dovrebbe stupire non poco che, a quanto ne sappiamo, nel dibattito scientifico tale questione non sia mai emersa; prova ulteriore del ragionamento precedente. Nel caso dei vegetali, poi, l’impossibilità della cognizione naturale e diretta del proprio patrimonio genetico è del tutto palese, in quanto essi non posseggono alcun sistema nervoso.

Sarebbe affatto insostenibile affermare che, in un’epoca remotissima, nel DNA tale informazione strategica sarebbe invece stata presente, e che solo successivamente essa sarebbe andata perduta in seguito ad una qualche atrofia di quella parte del cervello la cui funzione fosse stata precisamente quella di rendere disponibile alla coscienza tale complesso di cognizioni fondamentali. È impensabile che il «genio dell’evoluzione» abbia potuto consentire la perdita irreparabile di una funzione talmente importante, sia per ragioni intrinseche, e sia per la stessa fondamentale esigenza di sopravvivenza della realtà vivente. L’eventualità di tale immane e disastrosa perdita, a causa del suo carattere drasticamente involutivo o regressivo, implica la netta contraddizione, ossia la negazione completa, della stessa teoria evoluzionista. E nemmeno se si adducesse l’argomento di una mutazione nociva, ciò basterebbe a spiegare tale catastrofe, poiché, oltre all’impossibilità concreta di dimostrare la realtà di tale evento ipotetico nella storia biologica terrestre – e lo stesso dicasi per il caso della suddetta atrofia -, bisognerebbe inoltre spiegare come mai esso abbia colpito la totalità delle specie viventi conosciute, e non soltanto un certo numero di esse. È infatti più che ragionevole ritenere che, se effettivamente tale mutazione si fosse verificata, e avesse colpito tutte le specie viventi di quell’intervallo evolutivo, essa avrebbe dovuto necessariamente avere un potere ed un impatto tali, o da portarle tutte all’estinzione, oppure da produrre su di esse degli altri effetti collaterali, talmente profondi da compromettere anche altre loro importanti funzioni biologiche. Affermiamo ciò sulla base della ragionevole convinzione che l’ipotetica funzione cognitiva in oggetto non avrebbe potuto sussistere se non in piena sinergia con tutte le altre funzioni di ogni organismo, anzi, in qualche modo, si potrebbe, o dovrebbe, pensare che essa avrebbe dovuto costituire una sorta di agente di supervisione dell’intera attività biologica di tale organismo. A quel punto, la mutazione catastrofica ipotizzata non avrebbe mai potuto non provocare delle ripercussioni tali da impedirci oggi di avere di fronte agli occhi il mondo naturale che ci è noto, poiché le gravi anomalie che sarebbero sorte in quello sciagurato caso sarebbero state di una tale entità da non poter mancare di compromettere significativamente il corso dell’evoluzione nel suo complesso.

Se poi si obbiettasse che l’organismo necessita dell’involontarietà completa dell’esercizio delle sue funzioni fondamentali – quelle vegetative -, risponderemmo che questa non sarebbe stata affatto pregiudicata dalla facoltà del cervello di essere pienamente e perfettamente cosciente dell’intera biologia dell’organismo stesso: il cervello, infatti, avrebbe potuto benissimo conservare la totalità delle informazioni in oggetto senza interferire in alcun modo con le attività fisiologiche involontarie. Esso, inoltre, avrebbe potuto mantenere quel patrimonio informativo a livello inconscio, in modo da poter richiamare a volontà singole informazioni in base ed esigenze specifiche; magari immagazzinandolo in quella parte del sistema nervoso centrale che non ha funzioni di tipo decisionale, ma che poteva fungere da banca dati consultabile di volta in volta. Bisogna comunque ricordare che siamo partiti dall’ipotesi per assurdo dell’esistenza, in un precedente stadio evolutivo, di esseri pienamente consapevoli del proprio patrimonio genetico; per cui, in quell’ipotetica fase, la loro costituzione organica sarebbe dovuta essere tale da conciliare perfettamente tale facoltà con la necessaria involontarietà delle funzioni vegetative primarie.

Non si può nemmeno obbiettare che l’evoluzione abbia naturalmente prodotto il cervello come organo assolutamente incapace di possedere la cognizione che si è detta, perché è chiarissimo che invece, seppur indirettamente, per mezzo dell’indagine scientifica, esso è in grado di studiare e conoscere l’intera biologia corporea, specialmente nel caso della sua memoria genetica. Pertanto, se effettivamente si fosse avuta la mutazione distruttiva precedentemente ipotizzata, attualmente il cervello non possiederebbe affatto le facoltà atte alla conoscenza scientifica delle strutture viventi, compresa la propria. Questa conoscenza biologica, lo ribadiamo, appare come il frutto di un’attività artificiale, compiuta con strumenti esterni e diretta verso degli obbiettivi che, pur essendo realtà interne, in quanto appartenenti al corpo stesso, appaiono di fatto come oggetti estranei. Il corpo ignora il corpo, la realtà biologica ignora la propria stessa biologia. La coscienza non conosce affatto in maniera innata il proprio strumento corporeo malgrado, secondo la supposizione dei pensatori materialisti, esso ne condivida totalmente la natura. L’evoluzione biologica che avrebbe prodotto l’intelletto, risulta esser stata incapace di conferirgli la cognizione spontanea della sua stessa biologia. La vita avrebbe generato la coscienza, ma questa stessa coscienza ignora del tutto la vita stessa che l’ha generata, ossia la propria stessa realtà, poiché questa coscienza sarebbe necessariamente vita essa stessa, non avendo altra origine e sostanza che quella. Inoltre, se la vita non intelligente avesse davvero prodotto la vita intelligente – ipotesi di per sé assai problematica -, allora quest’ultima dovrebbe esserle senz’altro superiore, e, possedendo la facoltà conoscitiva, dovrebbe essere in grado di conoscere naturalmente la prima, sia in quanto essa le è inferiore, e sia in quanto le sarebbe congenere; ma così non è affatto. Tutte queste contraddizioni della teoria evoluzionista sono enormi e palesi.

Più in generale, se la materia contenesse già in se stessa, intrinsecamente, l’intelligenza produttrice delle forme biologiche, allora noi dovremmo percepirla nel nostro intero corpo, in ogni suo atomo, ed invece sappiamo con assoluta certezza che così non è affatto. Noi siamo effettivamente autocoscienti, ma il nostro corpo, in quanto tale, non lo è per niente; la materia, infatti, è notoriamente inerte ed assolutamente incapace di plasmarsi, o anche solo muoversi, da sé.

Resta dunque che noi possediamo un’intelligenza che non è affatto confondibile col nostro cervello, e, pur essendo perfettamente coscienti della razionalità indubitabile della struttura degli organismi, siamo costretti a riconoscere che l’intelligenza che l’ha prodotta è necessariamente una misteriosa entità esterna, la quale dev’essere posta inevitabilmente al di fuori dello stesso universo fisico. Intelligenza indipendente, trascendente, divina.

Giovanni Tateo Milano

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Breve storia dell’infinito

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Paolo Zellini, Breve storia dell’infinito, Adelphi, Milano, 2006 (1ª ediz. 1980), pp. 261.

Affascinante viaggio nella storia dell’idea di infinito, tra matematica – soprattutto -, metafisica, teologia e cosmologia, questo straordinario saggio di storia e filosofia delle cosiddette scienze esatte. Paolo Zellini, docente di Analisi numerica all’Università di Roma, sa agilmente condurci in quel vasto panorama di concezioni che va dai Pitagorici, Aristotele e Platone, passando per quelle di san Tommaso d’Aquino, Raimondo Lullo, Giordano Bruno, Niccolò Cusano, e poi Cartesio, Leibniz, toccando inoltre Hegel, Schopenhauer, Heidegger, e giungendo infine a Cantor, Dedekind, Russell, Gödel, e tantissimi altri protagonisti dell’esplorazione filosofica e scientifica dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo.

Ce ne occupiamo, oltre che per il valore del testo in sé e per sé, soprattutto perché siamo fermamente persuasi che la cultura della Tradizione, senza consentire affatto che la si releghi nell’ambiguo e sterile ambito dell’irrazionale – che a torto si considera come il dominio proprio della conoscenza sacra -, possa e debba esprimere le sue vedute sulle scienze in generale, e con particolare riferimento a quella della matematica, tra tutte la più divina, secondo l’insegnamento sapienziale del sommo Pitagora.

Prima di illustrare alcuni dei principali temi trattati nel libro, nonché alcuni tra quelli che ci hanno più colpito e stimolato, desideriamo rilevare il raffinato espediente dell’autore di accompagnare il proprio excursus da puntuali citazioni tratte da L’uomo senza qualità di Musil e dal Don Chisciotte di Cervantes, senza contare alcuni passi significativi di Dostoevskij. Non si tratta certamente solo di un modo di impreziosire un lavoro di per sé già assai brillante, ma, crediamo, di esprimere l’idea secondo cui la matematica, o la scienza in generale, non solo non costituisce un ambito teoretico ermeticamente chiuso ed impermeabile a qualunque sollecitazione proveniente da altri contesti culturali – tipo appunto la narrativa -, ma non è, soprattutto, un regno astratto del tutto avulso dalla vita concreta dell’essere umano, soprattutto intesa nella sua dimensione interiore, e nella sua prospettiva esistenziale di ricerca del significato ultimo della realtà.

Si parte, quindi, dall’antica idea ellenica dell’infinito – necessariamente correlata al principio del Limite, da cui ovviamente dipende tutto ciò che è finito – concentrandosi perlopiù sugli enunciati di Aristotele, per il quale l’infinito è unicamente un’illimitata potenza di esistere, ossia la possibilità degli enti innumerevoli di poter sussistere e di poter mutare. Esso è la radice del divenire, ed è l’attributo di quanto può incessantemente accrescersi o diminuire, e che, conseguentemente, non è mai definitivamente completo. Per quest’ultimo motivo, in particolare, l’infinito è l’origine, la causa del finito in quanto incompiuto e perfettibile; ed essendo la condizione primaria della catena inesauribile dei mutamenti indagabili, esso è anche l’indefinito, l’indeterminato; e pertanto, soprattutto quale primigenio caos sostanziale, costituisce l’inconoscibile per eccellenza, e rappresenta perciò il dominio oscuro dell’avversata e temibile irrazionalità.

Sono dunque affatto distinti l’infinito potenziale e l’infinito in atto, ossia quello effettivamente realizzato o compiuto.

Sarebbe stato opportuno citare, a questo punto, quanto Platone scrive sull’Uno nel suo Parmenide, giacché così si sarebbe reso evidente che l’Assoluto è sia Atto che Potenza assoluti, nel senso che Esso è nel contempo Possibilità infinita, infinito potere di Essere e di far esistere tutti gli enti possibili; così come è compimento, realizzazione totale, infinita di qualunque possibilità. L’Essere Divino è sia il presupposto e la possibilità di tutti gli innumerevoli enti che il fine ed il termine ultimo a cui tende il loro incessante divenire.

Una precisazione: l’autore cita (p. 76) una testimonianza del pitagorico Liside (fr. Diels-Kranz 46, 4), riportando che per costui “Dio potesse essere pensato come un numero irrazionale”; in verità, l’espressione άριθμόν άρρητον significa precisamente “numero inesprimibile” o “indicibile”, o anche “misterioso” e “sconosciuto”, e l’aggettivo άρρητος è appunto un termine misterico ampiamente in uso negli ambienti delle antiche confraternite iniziatiche occidentali. Zellini segue sostanzialmente, dunque, l’interpretazione della studiosa Maria Timpanaro Cardini – a cui si deve una notevole e ben nota raccolta commentata di frammenti e testimonianze dell’antico Pitagorismo -, secondo cui άρρητος è appunto sinonimo di “irrazionale”. In realtà, qui, non si tratta affatto di quanto si pone al di sotto della ragione, ma di ciò che, all’opposto, la supera verso l’alto, con un’intuizione immediata, priva di alcun procedimento. Il Dio di Liside, quindi, è certamente l’Uno di Platone, l’Unità Divina nella quale l’infinita molteplicità si trova implicata anteriormente alla propria manifestazione ontologica; perciò il “numero indicibile” è appunto questa stessa infinità considerata nel suo stato di occultamento nell’Uno, il quale ne è l’origine e la sintesi inesprimibili.

Sarebbe stato assai interessante, inoltre, se fosse stato preso in considerazione il discorso iniziale di Plotino in Enneadi VI, 6, 18, giacché qui egli afferma che nell’Intelligibile può tranquillamente sussistere il numero infinito, e crediamo che ciò sia giustificato dalla notevole differenza tra il dominio puramente noetico dell’Intelligibile stesso e quello strettamente dianoetico a cui appartiene la scienza matematica. Secondo la nostra interpretazione, Plotino lì intende che la Mente Divina, essendo illimitata nel proprio potere di “concepire”, ed eterna, genera l’intera possibile molteplicità illimitata degli enti intelligibili ed eterni, che è appunto ciò che si potrebbe definire «numero infinito», in quanto tale molteplicità immensurabile è costituita da unità, ossia da essenze singole, perfettamente determinate, irripetibili ed inconfondibili. Tale argomento è facilmente dimostrabile in quanto: 1) la molteplicità degli enti sia come possibilità che come fattualità è evidente; 2) l’eternità esclude necessariamente il tempo quale condizione della numerabilità in divenire; ossia la possibilità di contare in successione o di poter pensare sempre un numero più grande di un altro già dato; 3) è del tutto inammissibile, date le premesse, l’ipotesi che Dio, pur essendo infinito, possa concepire solo un numero limitato di idee eterne – a meno che non si tratti di quelle universali, che Pitagora e Platone insegnavano essere dieci soltanto, cosa che lo stesso Aristotele non aveva compreso, non tenendo buon conto della distinzione tra universale e particolare. In definitiva, quindi, solo il «numero infinito» di Plotino, avente carattere divino, deve effettivamente considerarsi quale reale «infinito attuale».

Chi invece si illuse di poter affermare l’esistenza effettiva, sul piano dianoetico, del numero o dei numeri infiniti – i cosiddetti “transfiniti” -, fu Georg Cantor, sulla base di alcuni ragionamenti, che eufemisticamente potrebbero esser definiti paralogismi.

Condividiamo, quindi, senza alcun dubbio l’atteggiamento di Leopold Kronecker, suo collega ed avversario, a riguardo, rimarcato assai significativamente: “Kronecker, che capeggiò fino alla morte l’opposizione ad ogni tentativo di fondazione dell’infinito attuale, giunse ad attribuire alle innovazioni di Cantor qualità sataniche” (p. 217). In effetti, giureremmo che questa è stata esattamente la stessa spiacevolissima impressione che esse hanno suscitato anche in noi la prima volta che abbiamo dovuto prenderle in esame. Forse che anche Zellini abbia provato lo stesso immediato e profondo sentimento di orrore intellettuale? Al momento non ci è dato saperlo; tuttavia, ci sembra che egli giudichi l’operato cantoriano quale esito di una tentazione od ispirazione faustiana; l’effetto di una ΰβρις nefasta, la cui nemesi lo stesso Cantor scontò in vita sotto forma di patologia nervosa cronica.

Brevemente, adesso, desideriamo esprimere il nostro disaccordo con l’autore in merito ad un paio di punti. Quando egli afferma che i metodi di Dedekind sono compatibili con la concezione di Platone secondo cui il numero è il risultato dell’azione del Limite sull’Illimitato, o dell’Uno sulla Diade indefinita (pp. 60-61), riteniamo che ciò rischi seriamente di produrre un increscioso equivoco. Partendo dall’accezione puramente metafisica, e primaria, di tali principî e della loro relazione, e trasponendola opportunamente nell’ambito strettamente matematico, si deve dire che Platone*, e prima di lui i Pitagorici**, intendevano affermare che la molteplicità pura, ossia completamente indeterminata – ricordiamo pure che, dal canto suo, Proclo indicava l’intelligibile «molteplicità in sé» quale presupposto immediato del «numero intelligibile» -, produce effettivamente il numero unicamente quando viene completamente plasmata e misurata dall’unità. Il vero numero, quindi, è sempre e solo quello intero, giacché è unicamente per questa sua natura che esso esclude da se stesso qualunque indeterminatezza, che è invece ineliminabile nel caso del calcolo infinitesimale, o di qualunque altro procedimento finisca per invocare numeri non interi, ossia di tipo sostanzialmente irrazionale.

Lo precisiamo in questa sede a esclusivo beneficio del lettore meno avveduto, sapendo bene che l’autore ne è invece pienamente consapevole, in quanto conosce perfettamente I principi del calcolo infinitesimale di René Guénon, avendone anche firmato la postfazione nella sua più recente edizione, sempre per Adelphi.

Per le medesime ragioni anzidette, non concordiamo sull’asserzione secondo cui lo stesso Platone, Teone di Smirne e Proclo avrebbero contemplato alcuni procedimenti di calcolo analoghi a quelli di Dedekind (p. 62); e rimandiamo in proposito a questo nostro articolo: Arturo Reghini, Dei numeri pitagorici, vol. II.

Di particolare interesse, inoltre, è il capitolo in cui ci si occupa di quella particolare accezione di infinito secondo cui ogni ente sarebbe praticamente impossibile da conoscere integralmente – per non dire che non lo sarebbe assolutamente -, in quanto prodotto o risultato di un’infinità di elementi, rapporti e fattori concomitanti assai difficilmente individuabili con la precisione desiderabile. Per parte nostra, a questo proposito, non possiamo che esprimere un certo disappunto, giacché, se tale idea si pretendesse di applicarla così com’è alla conoscenza dei numeri, allora non si potrebbe praticamente affermare di conoscerli affatto. È evidente, invece, che sarebbe assurdo pretendere di considerare ciascun numero come il risultato simultaneo di un’infinità di operazioni matematiche differenti e coinvolgenti nel loro complesso un altrettanto enorme insieme di numeri. In proposito, ci vengono subito in mente alcune delle più recenti e fantasiose elucubrazioni teoriche della fisica quantistica, le quali, per tentare di spiegare gli eventi subatomici del nostro universo finito, ricorrono all’ipotesi dell’infinità dei possibili (o solo immaginabili?) – ed ovviamente indeterminati ed indeterminabili – universi paralleli (si veda, ad esempio, l’articolo: Un paradosso impeccabile: gli universi paralleli); finendo così, da un lato, per privare di ogni senso l’esistenza così come effettivamente la sperimentiamo e conosciamo; dall’altro, per annichilire la stessa validità conoscitiva – già assai limitata e precaria – della scienza moderna. È perciò dunque, che si deve necessariamente far valere contro tale erronea prospettiva dell’infinito la necessaria concezione del finito;per cui, ritornando alla sola matematica, ciascun numero è solo e soltanto l’insieme delle unità che effettivamente lo costituiscono, prescindendo interamente dalla superflua, e disastrosamente fuorviante, immaginazione degli sterminatamente vari modi in cui esso potrebbe essere calcolato.

In effetti, ogni numero noto non può che essere considerato sempre e soltanto alla stregua di un effettivo calcolato, e non di un calcolabile, giacché appunto la sua calcolabilità teorica è indefinita ed inesauribile, e come tale finirebbe inevitabilmente per eclissare, per assurdo, la realtà immediata del numero stesso, pure già evidentemente data razionalmente. Allo stesso modo, tale considerazione vale anche per ogni numero ignoto, giacché di ogni incognita non si può di volta in volta considerare, puramente in astratto, la vastità immensa della sua ipotetica ed eventuale calcolabilità, bensì, necessariamente, soltanto le possibilità effettive della sua determinazione nel contesto preciso dell’insieme delle condizioni date dallo specifico problema in cui essa è precisamente posta. Ogni numero intero è necessariamente solo numero in atto, non in potenza, e pertanto è sempre precisamente determinato e perfettamente conoscibile. Anche il pitagorico Filolao, ad esempio, metteva infatti in guardia dall’anzidetto errore: “[…] in nessun modo potrebbe esserci oggetto conoscibile, se tutte le cose fossero illimitate” (fr. Diels-Kranz 44 B 3).

Nel capitolo in questione, l’autore affrontava il problema ponendosi nella prospettiva specifica della «metamatematica», ossia di quella moderna disciplina che si occupa di indagare le strutture logiche della matematica stessa e delle forme od espressioni codificate appositamente per esprimerle, ossia, in altre parole, del linguaggio scientifico con cui le verità ed i problemi matematici vengono definiti; con particolare interesse, evidentemente, per le questioni relative alla dimostrabilità dei teoremi. Tutto ciò ci conduce al successivo capitolo incentrato sui teoremi metamatematici di Kurt Gödel sull’incompletezza intrinseca dei sistemi formali della matematica. Finora, probabilmente, il volto più problematico, o addirittura più drammaticamente critico, dell’infinito, o dell’indeterminato, nella scienza esatta per eccellenza. In estrema sintesi, poiché qui non intendiamo affrontare il problema, dato che questa sola questione, per la sua estrema complessità ed importanza, è stata oggetto di numerosi e significativi studi specifici, ci limitiamo a ricordare che Gödel riuscì a dimostrare che, all’interno di un qualsivoglia sistema formale, dalle sue proprietà non è possibile dedurre né gli assiomi che lo caratterizzano, e né la coerenza interna che dovrebbe garantirne la validità. Una catastrofe epocale! Anzi no; infatti, Zellini dedicata il capitolo conclusivo alla notevole disinvoltura con cui gli ambienti della matematica ufficiale hanno disinnescato l’ordigno esplosivo posto da Gödel nel cuore del formalismo matematico moderno. In maniera estremamente sottile, se ne indoviniamo correttamente il pensiero, l’autore denuncia, o comunque rimprovera, tale incongruo aggiramento dell’ostacolo apparentemente insormontabile costituito dai teoremi sull’incompletezza, evidenziando come tale discutibile risposta da parte delle istituzioni accademiche dipendesse essenzialmente dall’essere la scienza matematica, ormai da tempo, in simbiosi inscindibile con la tecnologia, essendo la sua applicabilità al mondo della tecnica il criterio decisivo per la risoluzione, o l’accomodamento, di alcune crisi di non poco conto. Ci pare venga in qualche modo suggerito, infatti, che la scienza moderna sia esatta unicamente nella misura in cui essa soddisfa l’esigenza della tecnologia di padroneggiare il mondo fisico, il mondo della produzione industriale; pertanto, se le convenzioni, le inesattezze, le incongruenze, o contraddizioni della prima, non ostacolano, o, addirittura, potenziano la seconda, allora tutto è praticamente permesso. E quand’anche la matematica moderna, nella sua fase attuale, sembra rinunciare all’infinito di tipo cantoriano, per ritornare al finito più o meno ordinario – un esempio del quale potrebbe essere quello della matematica binaria che è alla base dell’informatica -, ciò sembra ancora una volta dettato da logiche di tipo essenzialmente utilitaristico, piuttosto che da genuine e profonde esigenze teoretiche.

Ad ogni modo, Zellini conclude l’opera riferendosi alla “flessibilità” della matematica moderna – che non ci sembra né aborrire né santificare -, e, d’altro canto, sulle sue rivoluzioni e crisi epocali, egli si è espresso soprattutto nel suo La ribellione del numero, di cui ci piacerebbe occuparci in futuro. In quell’occasione, e probabilmente anche in altre simili, avremo certamente modo di approfondire il suo pensiero su tali spinose questioni, nonché di esprimere tutte quelle ulteriori e necessarie considerazioni che, per ragioni di opportunità, non hanno trovato spazio in questa sede.

Giovanni Tateo Milano

Note:

* Marie-Dominique Richard, L’insegnamento orale di Platone. Raccolta delle testimonianze antiche sulle “dottrine non scritte” con analisi e interpretazione, prefazione di Pierre Hadot, traduzione di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2008, passim.

** Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, a cura di Maria Timpanaro Cardini, presentazione di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2010, passim.

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